Luigi Ganna ripara la ruota posteriore della sua bicicletta

Meno 99 al Giro100. L'edizione del 1910 e il complotto di Teramo

Giovanni Battistuzzi

La seconda edizione della corsa rosa la vinse Carlo Galetti. Quel che successe in Abruzzo fu uno dei primi romanzi gialli di una grande corsa in bicicletta

Milano-Udine, 388 chilometri in 13 ore e 16 minuti; Udine-Bologna, 322 chilometri in 10 ore e 31 minuti; Bologna-Teramo, 345 chilometri in 10 ore e 54 minuti. "E andava bene quando la strada era ben battuta, perché altrimenti...". L'Avucatt Eberaldo Pavesi, più di una volta si trovò a maledire quei "bravi disegnatori che a tavolino segnano le fatiche di noi ciclisti". Lo volle far sapere ai cronisti della Gazzetta dello Sport dopo aver concluso la prima tappa del primo Giro d'Italia, quello del 1909. Lo ribadì nell'edizione successiva, quella che lo vedeva come uno dei favoriti per la conquista della classifica finale. D'altra parte era uno dei Tre moschettieri, uno dei migliori atleti che il ciclismo italiano allora offriva, una delle tre punte dell'Atala, che quell'anno aveva radunato tutto il meglio del pedale italiano sotto il suo vessillo: con lui Luigi Ganna e Carlo Galletti, non una squadra, una corazzata.

 

Era il 23 maggio e la carovana si era fermata il giorno prima a Teramo. Carlo Galletti era in testa alla classifica e aveva "la gamba e la resistenza del treno", raccontano le cronache dell'epoca. Pensare di batterlo sembrava impossibile, tanto che c'erano voluti oltre venti minuti di attesa per vedere comparire sotto lo striscione d'arrivo della terza tappa il quarto. I primi tre erano i soliti e tra loro e gli altri c'era un intero Appennino.

 

"Per poterli battere ci vorrebbe il Padreterno o un attacco di svuotabudella", confidò Lucien Petit-Breton all'inviato dell'Auto, allora il più importante giornale sportivo francese. L'Argentino (così soprannominato per aver vissuto e corso diversi anni in Sud America) era stimato in gruppo, per il carisma certamente, per le vittorie senz'altro, ma anche per la capacità di vederci lungo, o meglio di portare un po' sfiga, almeno a dirla con Ezio Corlaita, bolognese coi baffi e dalla parlantina spiccia.

 

E così quando il 24 maggio i corridori dell'Atala si presentano al via della Teramo-Napoli, 319 chilometri la metà dei quali da pedalare in salita, tutti smunti e con lo stomaco sottosopra in molti pensano che il francese sfortuna la porti davvero. Chi non pensava questo, urlava al complotto, all'avvelenamento. Ne venne fuori un romanzo giallo dove il colpevole questa volta non era il maggiordomo, bensì chi veniva d'Oltralpe. E poco si stavano ad ascoltare le parole dell'oste dell'albergo che narrava di un festino culinario, a base di carne di pecora, uova e vino rosso, "che avrebbe steso un cavallo". Il dito era puntato contro i transalpini, che "si sa che sono virgulti di sportivi e pure affabili quando i loro tifosi non rallentano con le spranghe l'italico pedalatore", si leggeva sul Giornale d'Italia riportando alla memoria l'amichevole trattamento riservato al Diavolo Rosso Giovanni Gerbi nel corso del primo Tour de France.

 

Sull'argomento i Tre moschettieri preferirono il silenzio, ma nessuna denuncia fu fatta all'albergatore, nonostante "quel sapore strano nella minestra" evocato da Luigi Ganna. Altro che strano "quelle erano le nostre fave, le più pregiate di tutta Teramo". La gara poi disse che indipendentemente dalle fave o dal veleno Galetti fu inarrestabile, Pavesi e Ganna pure e furono loro tre a salire sul podio di Milano. Del complotto non se parlò più. Anzi il Giro fece avere un bell'assegno all'oste. Con un biglietto: scusate il disturbo.