Il cuore oltre l'Heysel

Alessandro Giuli
Stasera Liverpool contro Juventus, una partita caricata a molla per vent’anni

"Ladies and gentlemen: the hooligans”. Scritto in caratteri rossoneri su uno striscione di carta bianco, è il benvenuto riservato da una curva nemica ai tifosi della Juventus giunti in trasferta per assistere a una partita del campionato di calcio italiano 1986-87. Sono trascorsi pochi mesi dall’inferno dell’Heysel: 39 morti di cui 36 bianconeri ammazzati per soffocamento e violenze non ancora del tutto chiarite in una sera primaverile dentro lo stadio di Bruxelles. Era il 29 maggio 1985, finale di Coppa dei Campioni: Juventus contro Liverpool. Altri nemici avevano mostrato più tempismo perché già il 31 maggio alcuni muri delle periferie italiane erano imbrattati con scritte dalla firma e dal contenuto non equivocabile: “Minime dall’estero: Bruxelles –36”. Oppure “Juve 1 Liverpool 36”. Altri tifosi di altre curve d’Italia intonarono cori o coniarono slogan simili. In Italia, la Juventus è la squadra di calcio con il più alto numero di scudetti in bacheca e più tifosi al seguito.  Quelli che non tifano Juve generalmente la odiano senza riserve e a volte senza pietà. Preso uno a uno, adesso, è difficile trovare un antijuventino che sottoscriverebbe certe scelleratezze. Ma fino a ieri nelle curve ostili ai cosiddetti “gobbi” era ancora molto in voga una filastrocca tetra costruita sulla musica d’una canzone di Vasco Rossi: “Cosa succede, cosa succede a Bruxelles / son trentanove, sì, i morti dell’Heysel / guarda lì guarda là che cimitero / guarda lì guarda là è tutto bianconero”.

 

Ladies and gentlemen: Juventus-Liverpool. Quarti di finale di Champions League. Questa sera, in casa dei Reds, a vent’anni dall’Heysel. Le due società di calcio sono amiche. I tifosi inglesi si preparano a commemorare la strage del 1985 innalzando stendardi con i colori dei loro avversari, striscioni di benvenuto. Addirittura l’organizzazione d’una partita di calcio tra rappresentanze di supporter rivali. Segnali di pace che in verità si ripetono da due decenni. I Reds sono cambiati, assicurano. Estirpato ogni residuo di teppismo perfino dalla curva Kop dell’Anfield Road, la terrazza degli ultras così chiamata in ricordo dell’omonima collinetta sudafricana per conquistare la quale nel 1909, durante la guerra contro i boeri, l’esercito inglese sacrificò un reggimento composto da centinaia dei suoi migliori soldati di Liverpool. Dopo l’Heysel il calcio inglese è cambiato. Le squadre d’oltremanica si sono prese cinque anni di squalifica e il governo di Margaret Thatcher ha preteso di sradicare il male. Nell’86 è stata approvata la prima legge sul calcio – il “Public Order Act” – a cui sono seguiti altri sette pacchetti legislativi anti-hooligans. L’ultimo è dell’agosto 2000, nato all’indomani delle violenze elargite dagli inglesi agli Europei in Belgio e Olanda: il “Football (Disorder) Act”grazie al quale la polizia può togliere il passaporto a un sospetto hooligan prima di una gara internazionale. Nell’86 la polizia ha preso a tappezzare di telecamere stadi e dintorni, identificando i violenti, pubblicandone le foto sui giornali e, soprattutto, mettendoli in galera per lunghi periodi quando venivano arrestati. Ha funzionato: da anni l’Inghilterra guida la classifica delle presenze allo stadio per la massima serie. Gli impianti britannici in questi anni sono stati pieni ben oltre il 90 per cento della loro capienza, per un quinto di donne.

 

Al bar dei Fighters, silenzio

 

Al bar dei Fighters, il Black&White di Torino, nei giorni scorsi nessuno ha voluto parlare con i giornalisti. Il gruppo storico degli ultras juventini ha riunito appositamente il suo direttivo per discutere delle troppe richieste d’interviste, testimonianze, rivelazioni reclamate dalla stampa. Niente. Non si fidano. Adesso sono quasi tutti a Liverpool. Quasi perché molti di loro, con altri ultras di altri gruppi della ex curva Filadelfia, oggi chiamata Scirea, sono stati diffidati per via degli scontri con i tifosi del Parma scoppiati al Tardini qualche mese fa. I più grandi la memoria dei Reds e di quella notte dell’85 non l’hanno persa. Ma rievocarla pubblicamente neanche a pensarci.

 

L’anagrafe dice che anche a Torino le cose sono cambiate. La maggior parte dei bianconeri giovani e la parte influente dei veterani non coltiva desideri di vendetta. Meno che mai a Liverpool dove anche volendo far casino nulla è più possibile per via della supremazia scientifica della polizia britannica. Tutti sanno però che a Torino, nella gara di ritorno, può essere diverso. Non sarà impossibile arrivare a contatto con i Reds. Anche con quelli oggi addomesticati e non violenti, se è vero che per forza di cose fra loro si nasconderà qualcuno presente a Bruxelles quella maledetta sera di vent’anni fa. Ciò che i gruppi organizzati bianconeri non espongono in pubblico è argomento di dibattito nei cosiddetti “muri” dei loro siti internet. Spazi aperti in cui si mescolano ricordi e timori e rancori. In una di queste improvvisate curve telematiche c’è uno che si firma Buong1980 e scrive: “Sono fermamente contrario a ogni forma di violenza gratuita, ma è anche vero che questa forma di reazione, primitiva quanto si vuole, fa parte dell’essere umano. La verità è che tanti di noi sono caricati a molla e da troppo tempo aspettano questa partita per gridare in faccia agli orridi rossi una rabbia che non si è mai sopita. Pensate forse che da Liverpool scenderanno agnellini con il capo cosparso di cenere? Perché non vi fate un giro sulle rive del Mersey? Entrate nei pub dove si ritrovano e sentirete che si stanno preparando per quello che reputano un gran divertimento”.

 

Gianluca70 aggiunge su un altro muro: “Sputate in faccia a chi vi parla di pacificazione, di gemellaggio, di perdono. Voi perdonereste chi ha ucciso in modo vigliacco vostro padre o vostra sorella? Se la risposta è sì, mi chiedo che cazzo di uomini, prima che tifosi, siete! Solo la Juve”. Un Gennaro replica: “Io non ricordo per quanto tempo ho avuto gli incubi nei mesi successivi all’Heysel. Sono per la non violenza ma spero che non facciano nessuna provocazione altrimenti molta gente tranquilla come me potrebbe trasformarsi.  Forza Juve”. Un anonimo aggiunge: “Scusate ma come cazzo fate a dire che gli inglesi che verranno a Torino non sono gli stessi che erano a Bruxelles? Io vent’anni fa c’ero. Non vedo perché non debbano esserci anche loro”. Gli ultras confessano fra di loro d’aver ricevuto qualche richiesta da parte di colleghi “turisti della violenza”. Parlano di “messaggi da parte di ultras italiani che, a titolo personale, hanno espresso il desiderio di essere a Torino quando si giocherà il ritorno”.



L’arte di conquistare, caricando

 

Vent’anni fa a Liverpool era un’altra storia. La stessa memoria scolorita dei Beatles, le stesse fabbriche di oggi, il cielo scuro, il porto sul fiume Mersey, i quartieri degradati della working class e le Trade Union piegate dalla donna che un giorno metterà sotto il tacco anche gli hooligans, Margaret Thatcher. Nel bacino industriale d’Inghilterra, tra Liverpool e Manchester, in quegli anni la precarizzazione del lavoro imposta dal governo conservatore non aveva ancora prodotto l’economia più dinamica d’Europa. Aveva semmai inaugurato nuove povertà e rinnovato vecchie incazzature. Ma ad allietare i pomeriggi sul fiume Mersey c’erano i calciatori e i racconti delle battaglie ingaggiate dai tifosi con gli altri hooligans inglesi o in giro per il continente. Perché allora, siamo nei promettenti anni 80, i Reds dominavano in patria e all’estero, sui campi di gioco e sugli spalti. Da poco tempo, poi, nelle curve degli stadi britannici aveva trovato casa un ribellismo pazzoide devoto al “take the end”, ovvero l’arte di conquistare caricando in massa il settore occupato dalla tifoseria avversaria. Non si trattava di battaglie d’avanguardia, ma di scontri rugbistici in cui essenziali erano i centimetri di terra che si riuscivano a strappare al nemico e i danni inflitti a corpi e tribune. Non mancavano neanche i coltelli: alcuni tifosi londinesi del Chelsea erano famosi per condurre assalti armati coi bisturi, altri dell’Everton, noti come “gli sfregiatori”, non si recavano mai allo stadio senza avere in tasca le lame Stanley. Gli hooligans del Liverpool non passavano per delinquenti troppo raffinati. Forti del gran numero di supporter in mezzo ai quali potevano mescolarsi durante le trasferte, quando non era in questione lo scontro con gli avversari per lo più si dedicavano al teppismo spicciolo, praticato se possibile da sbronzi. Vetrine sfasciate, negozi saccheggiati e negozianti malmenati. Il 6 marzo 1985, a Vienna per l’andata dei quarti di Coppa campioni, avevano svaligiato due gioiellerie, una in periferia l’altra in pieno centro. Bottino: 270 milioni di vecchie lire.

 

Lo stadio insopportabilmente obsoleto

 

La Juventus arrivò alla finale di Bruxelles rilassata quanto i suoi tifosi, dopo sette giorni di ritiro vicino al lago di Ginevra, in uno dei quali a giocatori e dirigenti capitò pure d’essere trasportati in torpedone fino alla residenza dei Savoia per stringere uno alla volta la manina bianchissima di un ragazzino in giacca blu col colletto alla coreana e i capelli biondi pettinati da una parte: Emanuele Filiberto (ci guadagnarono una foto autografata dell’allora esule principino). L’appuntamento con la prima Coppa dei campioni della storia bianconera era per le 20.30 di quel mercoledì 29 maggio. L’Heysel, un tempo giudicato assai bello, nell’85 era insopportabilmente obsoleto: capace di 60 mila spettatori, tribune e distinti completamente coperti al contrario delle due curve in terra battuta con gradini sorretti da pietre malferme che costringevano gli spettatori a stare in piedi. Intorno al prato, la pista d’atletica. Lo stadio di Bruxelles era alla sua quarta finale: nella prima, quella del 1958, gli spettatori avevano visto per la prima volta proiettati sul terreno i riflessi notturni di diamante provenienti dall’Atomium, la struttura a palle d’acciaio creata per l’Esposizione universale.

 

Franco è un imprenditore torinese di 42 anni. Vent’anni fa, ragazzino, partì per Bruxelles con suo padre e alcuni amici in pullman, in tasca il biglietto del settore riservato al tifo organizzato bianconero. “La giornata era stata piacevole. Arrivati in mattinata, abbiamo girovagato per ore nel parco accanto all’Heysel. Tra italiani e inglesi non c’erano problemi, si familiarizzava. Ma quando i belgi aprirono lo stadio, saranno state le 17, cominciarono i problemi. La calca iniziale si creò lungo una rete metallica da pollaio antistante i due soli e minuscoli cancelli dai quali i poliziotti pretendevano di far passare uno alla volta migliaia di tifosi della Juve. La rete crollò presto mentre i cavalli della gendarmeria, imbizzarriti, scalciavano in mezzo alla folla e provocavano i primi feriti trasportati in ospedale con la mandibola fratturata”. Franco è stato tra i primi bianconeri a entrare, “sconcertato dal fatto che i tifosi del Liverpool fossero già per la gran parte nella curva opposta alla nostra, come se nessuno li avesse messi in fila e perquisiti”. Nel settore contiguo a quello occupato dai Reds, il settore Zeta, cominciavano ad affluire i sostenitori della Juventus partiti da Torino senza biglietto. Quelli che il biglietto l’avevano acquistato direttamente allo stadio, magari dai bagarini. Tifosi comunissimi, che sarebbero entrati a sedere dove capitava, lontano dagli ultras bianconeri, in mezzo a chiunque. Per vedere la partita. Così hanno fatto.

 

Prima del viaggio per Bruxelles i tifosi perbene del Liverpool, la maggioranza, avevano nominato alcuni delegati speciali che collaborassero con la polizia belga per isolare i teppisti. Un tifoso buono ogni 50 che partisse con gli altri e s’aggirasse poi per la città con abiti color arancione e la scritta “steward” sulla schiena. Nella notte tra il 27 e il 28 maggio i primi insuccessi: gli hooligans del Liverpool in viaggio per l’Heysel aggrediscono, picchiano e derubano un abitante di Ostenda, nel Langesraat. Episodi minuti di delinquenza si moltiplicano a Bruxelles quando la massa dei tifosi inglesi occupa la Grand-Place e lì stabilisce il proprio accampamento. Il 29 maggio al centro di Bruxelles va in scena un mondo diverso da quello sereno visto nel parco accanto all’Heysel. In pieno centro della città, nel primo pomeriggio, ore 15 e 40, c’è un inglese che agonizza in terra. Accoltellato, morirà in ospedale ventiquattr’ore dopo. E’ successo che in questo quartier generale messo su dai britannici nella Grand-Place sono transitati gli autobus italiani diretti allo stadio. Dall’accampamento dei Reds sono volati insulti e bottiglie di birra contro i bus degli Juve Club, quelli delle famiglie, dei tifosi normali. Fin qui solo paura. Con gli ultras bianconeri non è andata così. Loro hanno fermato l’autobus, sono scesi, hanno picchiato. Qualcuno ha tirato fuori i coltelli. Nel frattempo ci si scontrava vicino alla Gare du Nord, nei pressi del quartiere a luci rosse e per le vie intorno al centro. Qualche hooligans ha trovato pure il tempo per la tradizionale rapina alla gioielleria, quella in rue au Beurre.

 

E dire che nonostante qualche incidente episodico a Torino durante gli Europei del 1980, la curva juventina si era spesso distinta per un atteggiamento filo-inglese. In quel periodo uno dei capi dei Fighters, con la fissa del tifo british, aveva tentato di trasformare la Filadelfia in una sorta di stand da squadra britannica: niente coreografie straccione né tamburi, solo cori e battimani. Per di più, con quelli del Liverpool gli juventini erano quasi amici. Il 16 maggio dell’84, a Basilea, in occasione della finale vittoriosa di Coppa delle coppe, i tifosi di Torino avevano dedicato l’ultimo coro, si dice il più imponente, ai Reds che un paio di settimane dopo sarebbero andati a giocarsi la Coppa dei campioni a Roma contro l’odiata (dai bianconeri) Roma di Dino Viola. Si sa come finì: il Liverpool vinse ai rigori, i tifosi inglesi le presero in tutti i modi, coi sassi e coi coltelli e, prima e dopo la partita, per le vie della capitale fu caccia al suddito di Sua Maestà. Uno lo beccarono da solo vicino a un pub del centro e lo accoltellarono più volte: uscì dall’ospedale solo dopo qualche settimana passata tra la vita e la morte. Gli inglesi giurarono vendetta. E un assaggio di vendetta qualcuno se l’aspettava già nel gennaio dell’85, quando Juventus e Liverpool si sono incontrate a Torino per la Supercoppa europea: gara secca, 2 a 0 per gli italiani (doppio Boniek). Ma sugli spalti e fuori dal Comunale nulla o quasi di spiacevole.

 

Gli assalti, cinque

 

Il mattatoio di Bruxelles apre intorno alle 19. I poliziotti belgi che hanno appena abbandonato i cancelli dello stadio si schierano nel prato, attorno al campo ce ne sono altri 60. A far da muro nel settore Z, tra hooligans e tifosi bianconeri, una decina di agenti che si dissolveranno all’inizio del casino. Nel tramonto di Bruxelles il cielo è arancione e le maglie rosse dei tifosi inglesi pronti all’assalto paiono il veloce crepitio di un legno secco dentro un falò. La prima ondata, violentissima e allo stesso tempo armonica, sembra quasi portata dal vento: annunciati da un paio di fumogeni, nell’aria adesso volano bottiglie, bastoni, spranghe di ferro e qualche mattone. Gli assalti, cinque, si susseguono con cadenza ipnotica dal settore V allo Z, dal punto più lontano a quello più vicino alla tribuna centrale, spandendosi come una “ola” allucinata. Gli incursori, secondo i testimoni, non sono più d’un centinaio: pochi i veri membri della Kop, che se ne stanno acquartierati in un settore a qualche decina di metri. Sono quasi tutti hooligans della nazionale inglese, di Liverpool ma anche di Londra e Newcastle. Qualche skinheads, forse. La Pravda, citando testimoni oculari, scriverà di neofascisti del National Front che guidano l’attacco. Questi dirigono con esperienza, gli altri seguono senza metodo, ebbri d’alcol e di rabbia, eccitati dalla cedevolezza degli juventini, non ultras appunto, tifosi dell’ultimo minuto, cani sciolti, padri e figli insieme, come i Casula che stanno per finire stesi l’uno accanto all’altro sul piazzale dello stadio.

 

Si va avanti così già da qualche minuto: carica dei reds, breve ritirata, la polizia inerme.  Bianconeri in fuga. Quelli che cercano la fuga addossati al muretto alla base del settore Z sono troppi. Il muretto crolla e loro cadono per 15 metri, altri continuano a correre e altri ne cadono. Altri ancora continuano a fuggire e si calpestano l’un l’altro prima che a passeggiare sulla testa dei caduti siano gli hooligans. Molti si mettono in salvo e racconteranno. Quelli rimasti a terra finiscono soffocati, schiacciati o carne straziata dalla rete di recinzione in ferro. Allo stadio arriva la macchina dell’avvocato Agnelli. Con lui ci sono Henry Kissinger e Jacques Delors. Gli dicono quello che è successo. Se ne va. Suo figlio Edoardo invece sta in mezzo al prato, stordito a guardare i cadaveri, il volto senza espressione. Lo caccia via il presidente della squadra, Giampiero Boniperti, urlandogli di togliersi dalle palle, di andarsene negli spogliatoi. Il primo ferito entra nell’infermeria dello stadio alle 19 e 17: ha la maglia numero 9 di Paolo Rossi e un taglio profondo sopra l’occhio destro. Dopo 13 minuti nei sotterranei di spazio non ce n’è più. Morti e feriti stanno stesi appena fuori dall’impianto, davanti alle tribune D e F: i medici usano le transenne come barelle, improvvisano tracheotomie (e sui segni nella gola delle vittime sta per nascere la leggenda dei tifosi juventini sgozzati dagli hooligans con le bottiglie rotte o con rasoi). Tra le prime salme a essere portate via quelle di due bambini, poi due adulti con la gola aperta.  Moriranno pure due francesi: Jacques François, quarantacinquenne impiegato delle poste nella regione di Lille, e Claude Robert, di 27 anni, ferroviere della Loira.

 

“Una situazione paradossale”

 

Dall’altra parte dello stadio, nel settore degli ultras della Juve, i Fighters e quelli della Gioventù bianconera si buttano in campo sorvegliati da una schiera di poliziotti a cavallo. “C’era questa situazione paradossale”, ricorda l’imprenditore Franco: “C’è stato un momento in cui i nostri tentavano di far capire ai poliziotti che bisognava guardare quel che succedeva dall’altra parte e quelli non si voltavano nemmeno. La verità è che, per la polizia, eravamo noi, gli italiani, i delinquenti da reprimere”.

 

Tra gli juventini ancora sono pochi a sapere che cos’è successo (Franco lo scoprirà una volta risalito sul pullman), ma qualcuno dalla Z riesce a raggiungere gli ultras e riferisce. Scatta la reazione. I Fighters e gli altri invadono cercando lo scontro, ne fanno le spese i tifosi inglesi che si trovano tra loro e i gruppi organizzati del Liverpool. Alcune foto ritraggono una decina di ultras bianconeri, spranghe in mano, a due metri dalle reti di recinzione. Ma la Kop, che aveva solo assistito al massacro, rifiuta di scontrarsi e ignora platealmente le provocazioni. Nemmeno quando gli juventini espongono uno striscione con su scritto “Reds animals” (a dimostrazione che la tentazione di misurarsi con i maestri britannici l’hanno avuta eccome). E’ a questo punto che Umberto Salussoglia, studente torinese di 22 anni, tira fuori la sua scacciacani ed esplode qualche colpo in direzione dei tifosi inglesi (lo arresteranno grazie a un filmato della Itv). Intanto i Fighters arretrano sotto la carica della polizia a cavallo belga.
Passa un’ora e la voce irriconoscibile di Gaetano Scirea, il capitano, annuncia che la partita si giocherà “per consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione del terreno”. Quando inizia la gara, alle 21 e 41, c’è sangue intorno al campo e sulla pista di atletica e poliziotti a cavallo che roteano i manganelli e una fila di agenti che separa le due tifoserie nel settore Z, irriconoscibile come dopo un attentato. In sala stampa i giornalisti chiamano a casa le famiglie dei sopravvissuti per tranquillizzarle. Sugli spalti c’è Gianni Brera: “Poiché si gioca, mi tocca guardare”.
“Quando al circo muore il trapezista, entrano i clown” (Michel Platini).

 

Per la cronaca

 

C’è chi come Boniperti dice che fu una partita vera. Per la cronaca la Juve segnò al 57° su un rigore inesistente fischiato dall’arbitro svizzero Daina: Zibi Boniek fu atterrato nettamente fuori area. Segnò Platini e il risultato non si mosse più. Il 29 maggio 1985 la Juventus vinse la sua prima Coppa dei campioni, giocatori e buona parte del pubblico esultarono ignari dei fatti. All’aeroporto di Torino, il giorno dopo, Sergio Brio scese dall’aereo sventolando il trofeo, ma per gli ultras bianconeri niente è stato vinto nella notte dell’Heysel: semplicemente non è un successo nulla di cui ci si possa vantare.

 

La prima occasione di vendetta per gli juventini capitò ai Mondiali del ’90 in Italia. Gli inglesi furono aggrediti ovunque li avessero confinati gli organizzatori: in Sardegna (dove le sezioni locali di ultras bianconeri hanno un certo peso), a Bologna e, infine, a Torino. Gli hooligans erano accampati al parco del Valentino, uno spazio verde abbastanza centrale. Nonostante lo schieramento notevole di forze dell’ordine, un centinaio di ultras – in parte anche torinisti, caso eccezionale – attaccarono le tende degli inglesi con le molotov in piena notte, inseguirono quelli che scappavano e i più lenti finirono accoltellati.

 

Da allora in poi è stata sempre dura per i tifosi inglesi che si sono trovati a passare da Torino, una delle poche città al mondo in cui perfino i tifosi del Manchester, se vogliono farsi una passeggiata, nascondono sciarpe, magliette e bandiere e fanno i turisti. Ma non c’è soltanto Torino nella geografia della vendetta in bianconero: anche nelle più recenti partite giocate dal Liverpool contro la Roma, gli ultras bianconeri della capitale hanno organizzato la caccia all’inglese per i pub del centro.  C’è un ultimo evento fondamentale nell’elaborazione del lutto juventina: prima della semifinale di Coppa d’Inghilterra del 1989 a Sheffield, dopo una carica, oltre 90 tifosi del Liverpool muoiono schiacciati contro le recinzioni che impediscono al pubblico l’accesso al campo. Quelle recinzioni imposte per legge dalla Thatcher proprio dopo i fatti dell’Heysel. A molti juventini è sembrata una vendetta divina, sintetizzata in uno striscione apparso giorni dopo in curva Filadelfia: “Caduti di Bruxelles, Sheffield vi ha reso giustizia”.

 

“Non me la scorderò mai”

 

Dice ancora Franco: “Io ricordo ancora oggi benissimo quella serata, non me la scorderò mai. Mi ricordo piazza Castello piena al ritorno. Se la partita di stasera mi provoca particolari emozioni? Direi di no. Può essere però un’occasione buona per riparlare di quella notte lì”.

 

Nel forum telematico degli ultras juventini è stato da poco scoperto un deficiente italiano che istiga alla violenza firmandosi LFC (Liverpool Football Club).  Scriveva cose incommentabili tipo “We will kill you. We killed you and we will do it again”.  Cose sempre incommentabili e sgangherate tipo “Heysel 1985: 39 italians dead halleluyah!  We are animals and we will fucking kill you again. We’re gonna take no prisoners”. Ad accorgersi che si trattava di un demente, nella migliore delle ipotesi, sono stati anche quelli del Liverpool. Che hanno corretto in un inglese credibile e traducibile così: “Non vogliamo altri guai, vogliamo che venga giocata una partita corretta e nel giusto spirito. Vi accoglieremo cordialmente all’Anfield e vi preghiamo di fare lo stesso con noi a Torino. Onoreremo coloro che persero la vita vent’anni fa. E vi elimineremo lealmente dalla Champions”.

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