Il colloquio
Oggi un comico è al sicuro solo al teatro. Parla Francesco De Carlo
L’arte di liberare le risate dalle catene del politically correct al tempo dell'offeso collettivo. "Uno dei drammi della comicità, e vale anche per la politica, è che si pensa che la comicità che si fa al bar sia la stessa che si può portare sul palco", ci dice il comico
Francesco De Carlo non ama lamentarsi e non ama chi si lamenta di ciò che gira attorno alla comicità e all’umorismo, tra mode culturali, risvegli vari, censure e autocensure, suscettibilità estrema, né vorrebbe mai, come dice, “dare la colpa al pubblico” e non gli piace chi lo fa. Gira molto con i suoi spettacoli. È appena reduce da due serate al Brancaccio, a Roma, con il pubblico vivo, ricettivo, sfidante, come piace a lui. Crede che in teatro si possa dire di tutto, che il teatro, il luogo fisico, scelto in modo deliberato e con cognizione dal pubblico, crei le condizioni per la libertà espressiva, cose che comprensibilmente un bel po’ si limitano andando su altri mezzi, perché cinema e TV inevitabilmente hanno più vincoli e risentono delle ondate di ipersensibilità e dei limiti che è anche giusto mettere a ciò che si dice quando qualcuno può offendersi.
“Lamentarsi non serve a niente – dice al Foglio – chi fa questo lavoro deve farsi carico delle cose che dice e mettere in conto che quando si scherza su questioni più sensibili, su temi più difficili, ci può essere qualcuno che si offende. E bisogna essere pronti a questa eventualità. Salire su un palco, parlare davanti a tante persone, è una grande opportunità, credo che vada sfruttata, ma sapendo cosa si sta facendo. Uno dei drammi della comicità, e vale anche per la politica, è che si pensa che la comicità che si fa al bar sia la stessa che si può portare sul palco. Il populismo è proprio questo, l’idea che non ci debba essere un filtro tra i pensieri appunto espressi al bar, tra ciò che vuole e che pensa la gente, e ciò che si racconta sulla scena pubblica o su un palco. Il comico, l’attore, non deve essere come la gente semplicemente perché la gente paga un biglietto per venirlo a vedere e non per specchiarsi”.
Se gli si parla di libertà di espressione prova a togliere un po’ di enfasi e la trasforma in qualcosa di forse più significativo, la “libertà di ridere” che, dice, “è messa in discussione da destra, da sinistra e pure dal centro. La sinistra lo fa con categorie che forse non esistono neanche più, mondi un po’ di fantasia, il politicamente corretto nasce per raccontarsi a vicenda narrazioni autoconsolatorie in cui la realtà non è più quella che è ma è quella che dovrebbe essere. Lo vediamo in certe serie televisive in cui l’inclusività è il primo valore anche a discapito del racconto storico, e si arriva proprio a riscrivere la storia, è un neomoralismo che dà luogo a forme di censura pericolose certo per la libertà di espressione e per la libertà di ridere, però questo è un fenomeno molto limitato, chiuso nella nostra cosiddetta bolla, contenuto nello spazio effimero dei social. È un fenomeno che viene anche usato a rovescio, perché viene esagerato da chi, invece, vorrebbe continuare a offendere e, soprattutto in Italia, non vuole rassegnarsi al cambiamento naturale della comicità. Perché la comicità cambia nel tempo, non si possono difendere certe battute perché le facevano negli anni Cinquanta, non è come la torta della nonna. Questi sono gli attacchi al politicamente corretto, altrettanto sfasati rispetto alla realtà e altrettanto pericolosi, che arrivano invece da destra. Prendi la polemica sul bacio alla Bella addormentata considerato molestia. Dopo un diluvio di commenti indignati si scopre che tutto partiva da un post di un singolo studente dell’Università di San Francisco. Ma nelle università americane non ragionano in quel modo. Sono spesso negli Stati Uniti e posso testimoniare che non è così. È una cosa ingigantita da chi vuole continuare a offendere, da destra, senza tenere conto di minoranze, disabilità e altro”.
E però ora vogliamo sapere come interviene invece il centro. “Il centro ce l’ha legittimamente con l’algoritmo, che è capace di mettere limiti, nella fruizione di tutto quello che facciamo attraverso la rete, di cui neanche la peggiore censura era capace. La censura era netta, ma sapeva quello che faceva. L’algoritmo è cieco, non valuta, per cui se io, per scherzo, dico che odio i bambini, un sistema automatico mi esclude dal video. Ma se dico, per restare in tema, che amo i bambini, affermazione che sui social può essere anche più pericolosa, beh, quella la lasciano. L’algoritmo non riconosce il contesto e questo è il tema. Il contesto in cui scherziamo è fondamentale, se siamo al bar, se siamo in televisione o se siamo al teatro è sempre diverso. E credo che il teatro sia l’unico posto dove un comico davanti a tante persone può dire quello che pensa senza limiti alla libertà di espressione e alla loro libertà di ridere”. L’hanno inventato per quello, il teatro. “Capisco i limiti per altri luoghi e altri mezzi. Dico una cosa che si sente raramente, ma penso che in Italia di politicamente corretto, nei luoghi opportuni, ce ne vorrebbe anche di più, perché molte cose che si dicono durante un talk-show italiano medio in America o in Inghilterra non uscirebbero mai, eppure lì ci sono terribili spettacoli scorretti, interpretati da comici scorrettissimi, ma quelli te li vai a vedere a teatro, te li scegli, sai cosa trovi”.
La risata è anche un modo per interessarsi di qualcosa, per creare un contatto tra mondi che si guardano con diffidenza. “La risata mi affascina perché può combattere la tragedia della vita, quella cosa in cui alla fine si muore. Se ridi della tua condizione tragica la relativizzi e anche se ridi dei tuoi guai o dei tuoi difetti. Dovremmo ridere meno degli altri e più di noi stessi. Ridiamoci addosso, senza barriere e senza illusioni, capire che siamo delle merde e ridere della merda che abbiamo dentro. Se no la funzione liberatoria della risata viene meno. Tu devi prendere una cosa brutta e farla diventare divertente”.
Hai un passato di studi politici e di lavoro al Parlamento europeo, da lì alla carriera di stand-up comedian (anche in inglese, tra l’altro) c’è un bel salto. “L’ho fatto anche per la delusione dell’esperienza di supporto alla politica, vedendo che non avevo speranze di realizzare qualcosa, di cambiare qualcosa. Vedendo certi aspetti del potere e come funzionano lobby e grandi interessi. Lì ho alzato le mani e ho pensato che sarebbe stato meglio, andando verso l’iceberg, imparare almeno a suonare il violino. Un politico deve prendere la vita sul serio, un comico non deve prendere la vita sul serio. Ma resterò stand-up comedian finché potrò, ho fatto 40 date in 4 mesi con questo spettacolo. Giro tutta l’Italia, vedo il pubblico, lo studio, lo ascolto, molti non sono il mio pubblico, arrivano per altre ragioni, mentre chi lavora per i contenuti televisivi o cinematografici pensa che il pubblico sia poco curioso, sia morto. Questo ti fa capire la grande differenza con Inghilterra e America, dove c’è la gara a fare the next thing, a percepire cosa c’è di nuovo, a cercare il futuro della comicità, in una competizione tra migliaia di comici, qui invece sulla comicità facciamo le stesse cose dal 1991. Qui ci andiamo a cercare format giapponesi, come ‘Lol’, e non mi riferisco a una cultura proprio nota per il genio comico. Qui c’è un problema di assenza di concorrenza, e (ride, ndr), pensa te se proprio io devo andare a difendere il mercato e la concorrenza, ma è una cosa che, di fronte alla scarsità di idee, me tocca fa’”.