L'editoriale del direttore

Motivi saggi e non luddisti per impedire ai propri figli di avere uno smartphone prima del liceo

Claudio Cerasa

Il favoloso libro sulla Generazione Z dello psicologo americano Jonathan Haidt non fa terrorismo, ma è un'analisi seria di un fenomeno da monitorare, con quattro suggerimenti per gli adulti

E se fosse arrivato davvero il momento di parlarne? Jonathan Haidt è un famoso psicologo americano, autore di libri di successo sulla famosa Generazione Z. L’ultimo saggio appena pubblicato si chiama “The Anxious Generation” e le tesi del libro stanno smuovendo l’opinione pubblica in America e in Inghilterra. Il senso del libro è forte: gli smartphone stanno gravemente danneggiando i nostri figli e dobbiamo fare urgentemente qualcosa al riguardo. Negli ultimi giorni, il saggio di Haidt ha colpito l’attenzione di alcuni osservatori internazionali, dal Times di Londra al Telegraph passando per Axios, sia per le tesi esposte sia per la storia stessa del saggio. Haidt, come racconta il Times, aveva inizialmente intenzione di dettagliare gli effetti negativi che i social media stavano causando alla democrazia, tema un po’ superato. Ma alla fine della prima bozza del primo capitolo Haidt si rende conto che il vero tema da affrontare è un altro: la salute mentale degli adolescenti. La novità del saggio di  Haidt è che a differenza di molti libri scritti sul tema la chiave che si sceglie non è quella della denuncia retorica di un guaio irrisolvibile ma è l’analisi seria di un fenomeno da monitorare che può essere governato andando alla radice del problema e provando a offrire perfino alcune soluzioni. Haidt ha cercato di capire se la diffusione capillare degli smartphone sotto una certa età, e l’uso compulsivo dei social, possano essere degli elementi chiave per spiegare un fenomeno in evoluzione, che riguarda i ricoveri crescenti tra i giovani per problemi di salute mentale.  Haidt nota che negli ultimi anni c’è stata un’impennata, tra gli adolescenti, delle malattie psicogene, dalla sindrome di Tourette alla disforia di genere.

 

I numeri, in effetti, sono impressionanti. In Inghilterra, i registri del Servizio sanitario nazionale mostrano che più di 10.000 ragazze sotto i 18 anni sono state curate in ospedale per autolesionismo nel 2010 e che nel 2016 erano quasi 15 mila. Negli Stati Uniti, il trattamento ospedaliero d’urgenza per tentativi di suicidio o pensieri di suicidio da parte di individui di età compresa tra 10 e 18 anni è raddoppiato tra il 2007 e il 2015. Alla fine degli anni 70, il 52 per cento dei giovani americani di età compresa tra 17 e 18 anni incontrava amici socialmente “quasi ogni giorno”. Nel 2017 questa percentuale era scesa al 28 per cento, e il calo è stato particolarmente pronunciato dopo il 2010. Una ricerca del 2019 dell’Università di Liverpool ha analizzato due studi su quattordicenni, uno del 2005 e uno del 2015. I ricercatori hanno scoperto che in quel decennio il numero di adolescenti con sintomi depressivi è salito dal 9 per cento  al 15 per cento e le “difficoltà emotive”, i problemi di condotta sono quasi raddoppiati, così come la percentuale di adolescenti che dormivano meno di otto ore a notte. Che c’entra tutto questo con gli smartphone? Ci arriviamo. Dal 2018, Haidt ha studiato “i contributi dei social media al declino della salute mentale degli adolescenti e all’aumento delle disfunzioni politiche” e nel corso del tempo lo psicologo si è convinto: c’è un collegamento drammatico tra l’aumento dei problemi di salute mentale degli adolescenti e l’uso degli smartphone e dei social media. 


“L’epidemia di malattie mentali tra gli adolescenti è iniziata intorno al 2012”, afferma Haidt. I numeri hanno iniziato ad aumentare notevolmente nel 2010, tre anni dopo l’introduzione dell’iPhone (l’arrivo dello smartphone è del 2007, l’avvento dei pulsanti “mi piace” e “condividi” sui social media è del 2009, il lancio dell’iPhone 4, il primo smartphone con fotocamera frontale che rese più semplice scattarsi un selfie, è del giugno 2010). Nel 2016, il 73 per cento degli adolescenti americani possedeva uno smartphone, così come il 28 per cento dei bambini tra gli 8 e i 12 anni. Oggi è il 95 per cento degli adolescenti. Circa la metà dei bambini americani riceve il suo primo smartphone entro gli 11 anni. In Gran Bretagna, il 97 per cento dei dodicenni ne possiede uno. Un rapporto Pew del 2015 ha rilevato che un adolescente su quattro ha affermato di essere online “quasi costantemente”. Nel 2022, quel numero è quasi raddoppiato. Negli anni 90 l’adolescente medio guardava circa tre ore di televisione al giorno. Nel 2019 gli adolescenti negli Stati Uniti hanno trascorso in media sette ore e mezza al giorno davanti agli schermi, escluse quelle passate per scopi educativi. In quegli stessi anni, il tasso di suicidio è aumentato del 48 per cento per gli adolescenti di età compresa tra 10 e 19 anni. Per le ragazze di età compresa tra 10 e 14 anni, è aumentato di uno sbalorditivo 131 per cento. I tassi di depressione e ansia tra gli adolescenti statunitensi erano “abbastanza stabili negli anni 2000, ma sono aumentati di oltre il 50 per cento, secondo  molti studi, dal 2010 al 2019”. Dunque, che fare?  Haidt ha due riflessioni da suggerire ai genitori. La prima riflessione riguarda un esame di coscienza relativo al tipo di rapporto instaurato dai genitori con i propri figli. La seconda riflessione riguarda una possibile soluzione (anzi quattro). La presenza, dice Haidt, di un’infanzia “basata sul telefono” che spesso provoca “deprivazione sociale, privazione del sonno, frammentazione dell’attenzione e dipendenza”, nasce da un “cambiamento disastroso” nei rapporto tra genitori e figli, che ha spinto i primi ad avere nei confronti dei secondi un approccio votato all’iperprotezione, a una conseguente limitazione della loro autonomia nel così detto mondo reale a una tendenza progressiva a considerare per esempio il gioco all’aperto senza supervisione più pericoloso dell’accesso sfrenato ai social media tramite smartphone. Sintesi del ragionamento (e alzi la mano chi si sente estraneo al tema): “Abbiamo iniziato a portare i bambini in casa, dando loro molta più supervisione in attività altamente strutturate e molta meno indipendenza, gioco libero e responsabilità. E come società ci siamo allontanati da un’infanzia basata sul gioco, in cui i bambini progrediscono nel mondo e apprendono i propri limiti attraverso il gioco basato sull’età, a un’infanzia basata sul telefono, dove le barriere non esistono, i confini tra le varie età si assottigliano e i ragazzi possono essere così nutriti con una dieta costante di contenuti che creano dipendenza”.

 

Per non cadere però nella trappola luddista del “tutte le cose nuove che fanno gli adolescenti sono terribili, ai miei tempi non era così” occorre prendere coscienza del problema e adottare alcune soluzioni, anche traumatiche. Haidt ne suggerisce quattro: più gioco senza supervisione e maggiore indipendenza durante l’infanzia; niente smartphone prima del liceo; niente social prima dei sedici anni, a scuola senza telefono. L’attrice Kate Winslet, giorni fa, ha raccontato di aver seguito questo approccio. Ha raccontato di aver detto di “no” allo smartphone per i suoi figli. E ha motivato la sua scelta così: voglio che apprezzino di più la vita reale, voglio che guardino di più le nuvole, voglio che chiacchierino di più con gli amici, voglio che siano più autonomi nella vita e meno dipendenti dai social, voglio che non rischino ogni giorno di vedere immagini provenienti da fonti non verificate, voglio che non considerino il porno come fosse un parco giochi, voglio che non si sentano giudicati all’infinito sui social dai loro coetanei, voglio che non vedano ogni giorno le 237 notifiche di media che riceve un adolescente sul suo smartphone e lo voglio a tal punto da essere disposta a non sapere costantemente dove si trova mio figlio quando esce di casa, a che ora tornerà esattamente a casa, in quale parte della città si trova. Liberi e autonomi. Con quattro regole non luddiste per prendere coscienza di un problema che esiste, di un approccio che manca e di una condizione, quella dei genitori-chioccia, pigri, sindacalisti e iperprotettivi, che a tutto servono tranne che a proteggere i figli. Chi ci sta?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.