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l'editoriale del direttore

Di chi è il problema della tecnodipendenza dei nostri figli

Claudio Cerasa

Troppo tempo con lo smartphone in mano a smanettare sui social network? In America c’è chi pensa a soluzioni draconiane, ma anche chi vede la situazione da un’altra prospettiva, dove contano molto i genitori. Idee per non cadere vittime della tecnofobia

Vale per i nostri figli ma vale anche per quelli degli altri. Suvvia, quante volte ci siamo posti questa domanda? Come quale domanda? Questa: quanto dovrebbero stare i ragazzi sui loro telefoni? Ciascuno di noi, nel quotidiano, cerca di rispondere a questa domanda arrangiandosi come può. Qualcuno, illuso, cerca di agire attraverso una semplice moral suasion: regolati tu, ma fai il bravo. Qualcun altro, feroce, cerca di agire attraverso una classica restrizione: non si discute, non lo usi. Qualcun altro, ipocrita, cerca di agire facendo leva sui benemeriti parental control, illudendosi che i figli non sappiano trovare un modo per convincerti ogni giorno a derogare alle tue inflessibili regole. Qualcun altro, invece, ha scelto, paternalisticamente, di agire in modo più diretto, più brutale, e ha compiuto una scelta feroce, dal punto di vista legislativo. Non parliamo in questo caso della Cina (dove il governo ha da poco annunciato di voler lavorare a norme restrittive che richiedano ai produttori di dispositivi, sistemi operativi, app e app store di creare una nuova funzione chiamata “modalità minore”, capace di rendere inutilizzabili gli smartphone dalle 22 alle 6).

Parliamo del governatore repubblicano dello Utah, Spencer Cox, che qualche mese fa ha firmato un ampio pacchetto di leggi volto a limitare l’accesso dei bambini alle piattaforme dei social media. Le leggi stabiliscono un coprifuoco digitale per gli utenti dei social media di età inferiore ai 18 anni, richiedono ai minori di ottenere il consenso dei genitori per registrarsi agli account e richiedono anche alle società di social media di verificare l’età degli utenti nello Utah. Non contento di ciò, all’inizio di luglio, Cox ha rincarato la dose, dicendo di essere pronto a intentare causa per ritenere le società di social media responsabili dei danni causati ai giovani del suo stato. “Guardando all’aumento dei tassi di depressione, ansia, autolesionismo dal 2012 circa a oggi, su tutta la linea ma soprattutto tra le giovani donne – ha detto Cox al New York Times – abbiamo registrato aumenti esponenziali di questi problemi di salute mentale”. Tra i paesi democratici, Cox rappresenta probabilmente il politico con una visione più estremista sul tema (anche nello stato di Washington, all’inizio dell’anno, due consigli scolastici dell’area di Seattle hanno avviato azioni legali contro le società tecnologiche proprietarie di TikTok, Instagram, Facebook, YouTube e Snapchat, per la preoccupazione che i social media stiano danneggiando la salute mentale e causando problemi di apprendimento tra i bambini: il consiglio scolastico vuole che le società siano ritenute responsabili ai sensi delle leggi sulla molestia pubblica, del tipo che è stato utilizzato contro le grandi compagnie del tabacco).

Se si vuole però avere un’altra prospettiva sul fronte del rapporto corretto che i nostri figli possono e devono avere con gli smartphone e di conseguenza anche con i social, c’è una lettura che merita di essere affrontata e coincide con un saggio pubblicato qualche tempo fa dal giornalista americano Robby Soave.

Soave parte da una tesi: c’è un consenso sia a sinistra che a destra sul fatto che smartphone e social media siano un male innegabile. La sinistra lo fa a causa del suo pregiudizio anti-corporativo e alla sua propensione a vietare le cose. La destra a causa del suo sospetto negativo verso qualsiasi cosa che sia nuovo e a causa dell’idea che queste piattaforme siano spesso veicolo di idee liberali. Un male innegabile per tutti: bambini e adolescenti. L’idea è che i soggetti più vulnerabili siano “automi impotenti di fronte al lavaggio del cervello di Mark Zuckerberg e dei suoi amici”. Tutta la società, ci viene detto costantemente, è minacciata da queste nuove piattaforme mediatiche. La democrazia è appesa a un filo e i nostri figli sono condannati. La tesi di Soave è interessante. Questa isteria nasce dalla fobia tecnologica, una fobia che emerge ogni volta che vengono inventate nuove forme di comunicazione o intrattenimento, dalla radio alla televisione, dai fumetti ai videogiochi. Soave nota che anche Platone si lamentò della scrittura perché essa “ingenererà oblio nelle anime di chi la imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di sé stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente”). Soave ha un’idea diversa. Dice che qualsiasi prova effettiva che i social media stiano causando una crisi di salute mentale tra i giovani o non esiste, o è contraddetta da altri studi che mostrano il contrario, che l’uso di smartphone e social media è benigno o addirittura vantaggioso per bambini e adolescenti. Osserva che “i ricercatori non hanno effettivamente stabilito una connessione” tra l’eccessivo tempo davanti allo schermo e “l’aumento dell’ansia”. Nota che alcuni psicologi hanno recentemente scoperto che “un maggiore utilizzo dello smartphone era associato a tassi più elevati di resilienza e felicità” e cioè, i bambini che si connettono regolarmente con i loro amici online “potrebbero effettivamente stare meglio per questo” (In uno studio Pew Research del 2022, effettuato su 1.316 ragazzi fra i 13 e i 17 anni, si nota che il 67 per cento degli intervistati concorda sul fatto che l’uso dei social media li fa sentire “come se avessero persone che possono sostenerli nei momenti difficili”; il 58 per cento concorda sul fatto che il social li ha fatti sentire “più accettati”; e l’80 per cento afferma di essere “più connesso a ciò che sta accadendo nella vita dei propri amici”). I ricercatori di Stanford, nota ancora Soave, nel 2022 (l’indagine è disponibile online a questo titolo: Age that kids acquire mobile phones not linked to well-being, says Stanford Medicine study) hanno seguito bambini di età compresa tra i sette e gli 11 anni per cinque anni e non hanno trovato alcuna “associazione significativa tra l’età in cui i bambini hanno ricevuto i loro primi telefoni e il loro benessere”. Soave non nega che in alcuni casi l’uso dello schermo è diventato un problema, ma aggiunge uno spunto di riflessione interessante dicendo che, al contrario di quello che si potrebbe credere, è molto probabile che il disagio manifesto “sia il risultato di un diverso problema di fondo, come la depressione o l’assenza dei genitori, piuttosto che la causa”. Christopher Ferguson, psicologo della Stetson University, in una ricerca ha notato che “l’uso patologico della tecnologia” è solo il sintomo più visibile di un disagio e che dare la colpa ai social media evita il “duro lavoro di capire perché quella persona è caduta in un particolare modello comportamentale”. Sarebbe ingenuo, sottolinea l’autore, suggerire che l’uso di smartphone e social media sia sempre benigno: interrompono i ritmi del sonno, il che contribuisce a difficoltà di apprendimento e al sentirsi infelici. Ma i genitori hanno la possibilità di imporre limiti, ad esempio spegnendo gli schermi a una certa ora ogni sera e tenendo i dispositivi fuori dalle camere da letto. Le scuole possono bandirli dalle aule. E allora il problema è evidente: ma il problema dei telefonini, per i nostri ragazzi, è un problema dei nostri ragazzi, incapaci di autocontrollarsi, o è un problema dei genitori, incapaci di dare regole e di farle rispettare? Leggersi Robby Soave per non ritrovarsi in un mondo dominato dalla tecnofobia modello Spencer Cox.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.