Women in Revolt! - Foto dal Tate Britain di Madeline Buddo 

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La rivolta delle donne in mostra alla Tate Britain

Annalena Benini

"Taci, per favore". Una grande esposizione racconta l’arte femminista inglese e le proteste tra gli anni '70 e '90. La rabbia che ha cambiato il mondo, la parità che prima non c’era. E prima era ieri. Entrare allegre, uscire incazzate ma fiere

 

We're not beautiful
We're not ugly
We are angy

Slogan della protesta di Miss Mondo
Londra, 20 novembre 1970

 

Entrare alla Tate Britain poco prima del tramonto in un pomeriggio freddo di gennaio è come fare colazione da Tiffany: in un posto così bello non può succederti niente di male. Il Tamigi, i quadri di Turner, e finalmente “Women in revolt”, la mostra sull’arte e sull’attivismo femminista inglese tra il 1970 e il 1990, curata da Linsey Young. Ci tenevo molto e volevo anche fare bella figura con mia figlia portandola a vedere una cosa ruggente, furente, colorata e contemporanea. Una cosa di forza e di pantaloni a zampa d’elefante, i suoi preferiti. Carla Lonzi dice “La mia vita è la mia opera”, e in quelle sale della Tate ci sono molte opere di donne, installazioni, pagine di giornale, ciclostili di riviste, video, manifesti sgargianti, foto di ragazze sedute per terra, spesso coi bambini in braccio, che si sono inventate le riunioni dei collettivi e hanno creato slogan geniali e cambiato il mondo, conquistato una parità che prima non c’era. Prima non c’era. Prima non c’era. E prima era ieri.

  

Siamo entrati alla Tate, siamo entrati tutti e quattro, anche i maschi, con grande entusiasmo e quasi fame, nelle sale piuttosto piene della mostra. Ovviamente le sale sono piene soprattutto di donne. Dico ovviamente così, un po’ a caso, visto che io vado a vedere i quadri di Turner senza pensare che non mi riguardino. Vado a vedere quello psicopatico di Picasso pensando al movimento che ha creato nell’arte e nella cultura, e però anche il femminismo ha creato un movimento nel mondo, e certo non riguarda solo le donne. Comunque: ovviamente le sale sono piene soprattutto di donne, di tutte le età, ma c’è anche qualche fidanzato, qualche figlio, qualche accompagnatore timido e rispettoso, che a poco a poco, sala dopo sala, cercherà di confondersi con la carta da parati e di non incrociare il nostro sguardo. Oppure, immagino, di scappare dalla finestra, o di cercare un fioraio dentro la Tate per comprare dei fiori alla sua fidanzata. Sala dopo sala, guardo gli occhi delle donne che a loro volta guardano altre donne alle pareti e sul pavimento, che leggono storie di donne e di lotta di figli in braccio e di sveglia alle 5 del mattino per preparare la colazione a tutti e pulire la casa (c’è anche un Monopoli dei primi Settanta, si chiama Womanopoly, e se sei una donna parti svantaggiata e torni sempre al via o salti un turno perché hai superato un uomo meno qualificato di te e dai non si fa, oppure hai un bonus perché sei carina mentre un uomo ha il bonus perché ha lavorato bene. Salta un turno. Torna indietro. Vai in prigione) e mi accorgo che quegli occhi cambiano mentre cambiano anche i miei. Gli occhi azzurri diventano neri, dagli occhi neri si alzano le fiamme. 

Siamo entrate sorridenti, ammirate, curiose, anche un po’ trionfanti: una mostra celebrativa di un movimento, di un’epoca, di una quasi rivoluzione fatta senza armi ma con il pensiero e la parola, sono entrata fiera di mostrare ai miei figli quell’ondata di coraggio, creatività e ostinazione, ragazze allegre con i capelli corti oppure lunghissimi, i maglioni a collo alto, file di maglioni a collo alto o tette al vento e sorrisi enormi, nonne contro il nucleare con i fazzoletti in testa annodati sotto il mento. È una festa, sono le donne in rivolta, ma sala dopo sala, storia dopo storia, sento gli occhi che bruciano, vedo una ragazza che piange, incrocio una signora con i capelli grigissimi, la sento mentre dice a un uomo alto, calvo: taci per favore. E lui in effetti tace. Taci per favore. 

È così evidente che le donne, le artiste, le attiviste, le madri, le signore di quartiere che hanno reso tutto più brillante per noi hanno fatto una fatica grandissima, sono state sottopagate, sotto stimate, hanno fatto meno di quel che avrebbero voluto, hanno litigato con le loro madri che dicevano: ma dove vai? Hanno litigato con le loro figlie che dicevano: ma dove vai? Hanno litigato con le altre che dicevano: ma dove vai? Hanno litigato con i mariti, fidanzati, amanti, che non capivano perché fossero sempre così arrabbiate. Hanno litigato con le donne e con gli uomini. Con gli uomini sempre per lo stesso motivo: perché è difficile capirlo se non succede a te. Se sei tu quello che va al pub la sera. Se sei tu quello a cui si fanno le domande per prendere le decisioni. Se sei tu quello che guadagna di più. Se sei tu quello a cui la mamma diceva da piccolo (e l’avrò detto anch’io, avrò detto di peggio): non fare la femminuccia. Se sei tu quello che con 37.1 è morto. Mentre rimugino e leggo tutte le didascalie con gli orari di mogli lavoratrici dei sobborghi di Londra e mi escono le fiamme dagli occhi, e mia figlia ride per una ragazza con gli occhi strabuzzati in abito da sposa davanti a un lavello pieno di piatti sporchi e la scritta: “C’è vita dopo il matrimonio?”, si apre una stanza con un’opera gigantesca di Margaret Harrison: è un’installazione, un’enorme grata piena di oggetti: fotografie di bambini, borse della spesa, una carrozzina blu, uno strofinaccio, tutine da neonato, un orsetto di pezza, stivali di gomma da pioggia, qualche pentola, un cucchiaio da minestra, appesi con mollette da bucato. L’opera di chiama “Greenham Common (Common reflections)”, immagino sia un gioco di parole con The Common Reader, il saggio di Virginia Woolf sulla lettura, perché sopra l’installazione c’è una grande scritta, una frase di Virginia Woolf: “Possiamo aiutarvi meglio a prevenire la guerra non ripetendo le vostre parole e non seguendo i vostri metodi, ma trovando nuove parole e creando nuovi metodi”. Nei primi anni Settanta le mostre di Margaret Harrison venivano chiuse dalla polizia per indecenza, e l’idea maschile di decenza ha molto a che fare con il femminismo, cioè con il maschilismo che riteneva (ritiene?) indecente ogni cosa che non risponda ai suoi ordini e alla sua costruzione del mondo, alla sua ingenuità: lo struggentissimo film “Barbie” di Greta Gerwig, che cos’è in fondo se non la rivelazione dell’ingenuità prepotente di Ken, che idolatra i cavalli e i cappotti di pelo ed è convinto che il potere passi da lì? Entrambi, Barbie e Ken, vanno nel mondo reale, ci vanno insieme, ma Ken ritorna a Barbieland con un’idea basica, il cavallo, e Barbie con un’idea complessa: l’imperfezione di tutto. 

Ma la signora con i capelli grigi ha detto all’uomo calvo: taci per favore. E lui allora è andato a farsi un giro da solo nelle sale del femminismo nero e delle proteste degli anni Ottanta. È evidente che senza di lei è perduto, non sa dove guardare, non si diverte perché non può discutere, senza occhiali non riesce nemmeno a leggere le didascalie. Nonostante io adesso sia molto arrabbiata, perché è impossibile non esserlo, spero che lei arrivi a salvarlo, e infatti lei arriva, con una lunga sciarpa a righe che pende sopra la borsa, e lui si affretta a prenderle la borsa, lei gli fa una smorfia, o forse è un sorriso, e insieme vanno nelle stanze in cui un gatto disegnato sopra un manifesto dice: “Lesbians are everywhere”.  

Quindi è questo, essere in rivolta. Non smettere di arrabbiarsi e di partire da sé e non dalla teoria, e quindi anche non smettere di dire, disegnare, scrivere che la moglie marxista fa i lavori domestici, e quindi anche le teorie di Marx possono andarsene a quel paese ad asciugare i piatti. Non è la rivoluzione delle donne, quella in cui bisogna idolatrare un uomo, o un cavallo. 

E adesso tutte queste donne alla Tate Britain stanno per finire la visita, hanno gli occhi e i pensieri in tumulto, camminano lente, chissà che cosa diranno alle amiche, alle madri, intanto i maschi sono spariti, io però torno indietro perché c’è una grande foto che non mi levo dalla testa: una donna giovane seduta su una panchina, jeans, zoccoli, calzettoni, giubbotto di pelle, capelli ricci. Sta parlando al sole con un’altra donna seduta al lato opposto della panchina: jeans, zoccoli, calzettoni, giubbotto di pelle, capelli ricci. E’ la stessa donna, ma la pensa diversamente. Una spiega, muove le mani, l’altra non è convinta, ma ascolta. Tra un po’ forse parlerà lei. L’opera si chiama: “Divided self”, di Rose Finn-Kelcey, ed è così che mi sento ogni volta quando mi parlo. Che è comunque diverso da idolatrare un cavallo. E’ una cosa in movimento, che a volte si inabissa perché vuole tranquillità e a volte per fortuna si rianima perché vuole fare bella figura con sua figlia. Mia figlia all’uscita da “Women in revolt” ha detto a suo fratello: adesso capisci perché non hai mai ragione. E lui incredibilmente ha detto: sì. E allora siamo andati al pub a berci una birra, uomini e donne grati alla rivolta, turbati al pensiero di nessuna rivolta. Niente cavalli.   

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.