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Storia di Cassia, che era Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany

Annalena Benini

Credevo che questo dolore riguardasse i miei figli, ma dodici anni sono finiti per sempre

Quando è morto il nostro gatto, dopo dodici anni durati tre giorni, ho pensato che questa morte era la prima morte che riguardava i miei figli, e io dovevo pensare a loro e non a me. Spiegare il ciclo della vita, la vecchiaia, non piangere, riguardare dopo un po’ insieme a loro le fotografie e i video in cui Cassia fa lo sguardo di Audrey Hepburn (Cassia era identica a Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany, precisamente nella scena in cui Audrey Hepburn si toglie la maschera da gatto). Toccava a me, l’essere umano adulto, dire è stato meglio così, è tutto giusto (giusto?), e rassicurarli sul fatto che il gatto non aveva sofferto neanche un minuto, che non era cosciente (anche se il suo sguardo in clinica diceva: non andare via, mentre il veterinario mi diceva: vada via), e raccontare con una specie di allegria la fortuna di Cassia che è stata tanto amata anche se feroce, e anzi amata di più proprio perché feroce.

  

E’ stato come avere una tigre in casa: il cane guaiva appena la incontrava e cercava di infilarsi per la paura la coda tra le gambe, ma avendo una coda davvero misera non ci riusciva, e lei lo fissava con disprezzo, sventolando la sua coda come una bandiera dei pirati. Abbiamo trovato spesso unghie di Cassia sul naso di Fix, e non ci siamo mai tormentati per l’ingiustizia.

 

Nessuno si sarebbe permesso di farla scendere da una poltrona che aveva scelto, o da un cuscino, nessuno avrebbe mai osato accarezzarla senza il suo consenso scritto. Cassia ha viaggiato sempre con noi, è stata anche dove era vietato portare i gatti, ha spaventato i ladri, è servita come minaccia per ospiti non graditi e bambini insopportabili, ha guardato tutte le serie tivù, ha scritto tutti gli articoli sdraiata sulla tastiera e si è fatta il nido in tutte le borse. Al mare ci accompagnava fino quasi alla spiaggia e la sera ci aspettava in mezzo alla strada, per poi fingere di essere passata di lì solo per caso, di ritorno da un ballo. Ha sopportato le nostre assenze senza mai una ripicca, perché la sua ferocia era pari alla sua grandezza.

 

Non ha mai avuto figli, ma ha cresciuto i miei sdraiandosi sopra la carrozzina e controllandoli quando erano nella vasca da bagno. Non ha mai ucciso il cane, alla fine. Non ha mai ucciso nemmeno me, anzi quando avevo la febbre alta e il mal di gola, per ventiquattr’ore Cassia ha scelto di essere una sciarpa, avvolgendosi intorno al mio collo. Alla venticinquesima ora mi sentivo guarita e lei mi ha graffiato a sangue una mano che avevo mosso per prendere il telefono, poi ha cambiato stanza, indignata.

 

Pensavo che la sua vita terminata all’improvviso riguardasse soprattutto i miei figli, il loro primo incontro con il dolore, e quindi mi occupavo solo di quello. Perché lo sapevo già, che i gatti muoiono, che quelli che li amano li amano fortissimo, che le età della vita cambiano in un attimo e che Cassia spettatrice attenta del Racconto dell’ancella e delle mie prove di vestiti davanti allo specchio (la sua gonna preferita era di pelle, le ricordava le sue battute di caccia alle lucertole), un giorno sarebbe stata un ricordo. Lo sapevo, l’avevo già vissuto con altri animali, ero pronta, ma adesso che comincia la sua stagione preferita, l’autunno, ed è appena uscito un piccolo libro appassionato di Costanza Rizzacasa d’Orsogna, Storia di Milo, il gatto che non sapeva saltare (Guanda), una favola morale, una storia di amicizia, una dichiarazione d’amore, mi rendo conto che anche io sono rimasta senza Cassia e che questi primi dodici anni sono finiti per sempre.

 

Tutto il periodo in cui si veniva al mondo, si cercava riparo e cibo in braccio a qualcuno, tutti gli anni in cui il pensiero principale era: ma quando si addormenta?, o anche: non ce la faccio più, non resisto un secondo di più, tutte le sere in cui sono arrivata a casa e la casa intera ululava: finalmente!, e dove sei stata?, e i muri si gonfiavano e gridavano: era ora!, adesso lascia tutto quello che hai dentro la testa e pensa solo a noi, e la porta si chiudeva alle mie spalle con un gran tonfo, Audrey Hepburn era lì, solenne, silenziosa, rassicurante. Mi aspettava. A volte sorrideva, soprattutto se lanciavo un plaid sul divano. Se ci agitavamo troppo, ci mordeva. Una volta ha trovato uno scarafaggio sul pavimento della cucina, io sono saltata sul tavolo e le ho urlato: uccidilo!, lei mi ha guardato orripilata, proprio con un disgusto morale, e se n’è andata. Una domenica mattina, poco tempo fa, si è accasciata in bagno, sulla valigia con cui ero tornata la sera prima e che la entusiasmava. Ai bambini abbiamo detto che era molto stanca, che solo questo è successo. E anche io penso che sia successo solo questo: era molto stanca, ma mi ha aspettato.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.