Il racconto

La Storia va dove le pare: tre lezioni dal passato (anche recente)

Andrea Graziosi

Il corso del tempo spesso si fa beffa degli esseri umani. Si vedano gli esempi della riforma della Dc, la cattedrale ucraina di Filadelfia o il Pnrr. Cosa possiamo imparare da questi eventi?

Dopo la guerra anche i democristiani hanno immaginato e perseguito un’Italia migliore. Con la riforma agraria, per esempio, hanno sognato un paese con un solido zoccolo di contadini proprietari, onesti, cristiani e prolifici. In particolare Fanfani, che pensava anche a un’Italia con un grande settore industriale, organizzato intorno a una forte presenza statale, si batté per costruire un pezzo di quello zoccolo nella Maremma meridionale, a sud della sua Arezzo. Sappiamo che anche in Italia meridionale i contadini, e in specie le contadine, ricevuta la terra che avevano tanto voluto, preferirono appena possibile emigrare in città, rovesciando aspettative e speranze. Questa storia, raccontatami da una persona intelligente e competente, ha però risvolti ancor più inattesi e getta una luce nuova sul mondo in cui abbiamo vissuto e viviamo.

Il paradossale collasso di un’utopia democristiana

Nella Maremma bonificata Fanfani poté essere particolarmente generoso: qui famiglie contadine un tempo povere e afflitte dalla malaria ricevettero un casale e diversi ettari a testa. I contadini li lavorarono, anche se non troppo perché molti preferirono comunque andar via o fare lavori stagionali altrove, come fanno di regola i migranti. Comunque poco cambiò fino all’arrivo del vero benessere e del turismo a cominciare dagli anni Settanta. A fine ’900, quegli appezzamenti della Maremma meridionale, in zone di grande bellezza e di regola non lontani dal mare, valevano ormai anche due milioni di euro l’uno. I vecchi contadini o i loro eredi cominciarono presto a venderli e sul terreno, spesso frazionato, sorsero così ville e villini di buona qualità e anche di lusso, circondati da migliaia di metri quadri di oliveti e giardini. 

Molti dei nuovi ricchi beneficati da un Fanfani che aveva voluto un’Italia contadina, operosa e cattolica smisero così di lavorare e i loro figli spesso di studiare, tanto i soldi c’erano. Si prese a vivere come essi promettevano di permettere per sempre, andando a caccia e godendosi la vita. Cogli anni però, i soldi finirono, e parte degli eredi di quelle famiglie e di quei giovani che non avevano studiato dovettero cominciare ad arrangiarsi, per esempio lavorando come giardinieri e tuttofare nelle ville costruite sulle “loro” terre, spesso detestandone i padroni. Alcuni presero anche a fare uso di metamfetamine, cocaina o eroina. 

L’utopia democristiana di Fanfani si è così trasformata, attraverso la pressione di forze e circostanze imprevedibili, in una distopia che negli anni Cinquanta nessuno avrebbe potuto immaginare. Quando parliamo, e lo facciamo spesso, del crollo dell’utopia comunista dovremmo ricordarci che ce ne è anche uno meno visibile, ma altrettanto potente, di una modernizzazione a guida democristiana che ha prodotto, contro il volere dei suoi artefici, un paese “decontadinizzato” e scristianizzato che già negli anni Settanta, col divorzio e con l’aborto, sbatté in faccia ai suoi costruttori la fallacia delle loro illusioni.

Costruire per sempre in un mondo che si muove

Qualche giorno fa, in occasione del congresso annuale degli studiosi americani di Europa orientale, Russia e Eurasia, sono stato portato a visitare la grande cattedrale cattolica di rito greco (uniate) ucraina di Filadelfia, dedicata all’Immacolata Concezione e ispirata a uno stile di revival neobizantino. Nel suo interno vastissimo, capace di accogliere quasi 2.000 fedeli, l’intelligente e gentile arcivescovo che ci ha accolto ha raccontato la storia seguente. La chiesa, davvero enorme, e circondata da altri edifici destinati a ospitare le sue attività, era stata costruita negli anni Sessanta dall’allora arcivescovo, per servire i bisogni dei discendenti delle centinaia di migliaia di contadini ucraini emigrati a fine ’800 dalla Galizia allora austriaca negli Stati Uniti, dove di regola andavano a fare i minatori nei grandi campi di antracite della Pennsylvania orientale. 

Già allora una parte di fedeli aveva fatto notare come sarebbe forse stato più prudente costruire un edificio meno grande, o farlo nei suburbi dove parte di quegli antichi emigrati, integrandosi, andavano trasferendosi. I loro ragionamenti si fondavano probabilmente anche sull’esperienza di tante altre metropoli statunitensi, i cui quartieri hanno cambiato radicalmente natura nel corso di pochi decenni, come la Harlem ebrea di inizio ’900 diventata in pochi anni il cuore della città nera, o la Little Italy svuotata dal trasferimento di molti dei suoi abitanti a Staten island e mangiata da un’immigrazione cinese che sta ora vivendo un fenomeno analogo. 

L’arcivescovo però non si era arreso e nell’ottobre 1966 aveva dato il via ai lavori con una prima pietra contenente un frammento della tomba di Pietro a Roma, donato da Paolo VI. Parte degli ex immigrati ucraini cominciavano intanto a lasciare anche i suburbi per trasferirsi negli stati dell’ovest e del sud, come facevano tanti altri americani. Il risultato del sogno di una grande cattedrale uniate nel cuore di Filadelfia è quindi sì un maestoso edificio che ricorda molto Santa Sofia, circondato però ora da un quartiere nero, i cui abitanti ne affittano parte degli edifici per le loro organizzazioni comunitarie. Esso confina anche con una zona abbandonata, popolata da accampamenti di tossicodipendenti – oggi una terribile realtà di tanti centri americani – ai quali l’arcivescovo attuale coi suoi pochi collaboratori  porta ammirabilmente cibo e cure. 

La storia insomma va dove le pare e come ci ricorda l’Italsider di Taranto, simbolo dei sogni progressisti dell’Italia del miracolo economico, è capace di trasformare completamente il senso e il segno dei progetti umani. Non si tratta certo per questo di rinunciarvi. Vanno però concepiti ricordandosi sempre questa verità, e quindi in modo il più possibile elastico e polifunzionale, perché non si passa mai solo da uno stadio all’altro – dal capitalismo al socialismo, dall’arretratezza allo sviluppo, o dal mondo giusto a quello al contrario del generale Vannacci – ma si attraversano di continuo fasi sempre nuove in un processo imprevedibile e infinito. 

Sognare il miglioramento continuo e insegnare a mentire

La terza storia riguarda il nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), e in particolare la sua parte relativa a Università e ricerca, che ho avuto modo di seguire, ma non dubito che quello che scrivo trovi riscontri anche in altre sue sezioni. E’ noto che il piano fu negoziato dal governo Conte II, che decise di chiedere all’Unione europea il massimo possibile, aprendo così implicitamente (e prevedibilmente) la porta a più pesanti controlli europei. Questi controlli si manifestarono tra l’altro in una più pervasiva richiesta di adesione a quella che si potrebbe definire l’ “ideologia europea”, che nel settore Università e ricerca si è incarnata anche in stringenti richieste e quote percentuali in materia green, gender, and digital (a scrivere è un convintissimo europeista, disposto pur di restare nell’Unione ad accettare qualunque cosa, perché in fondo ci conviene e moltissimo comunque, ma non a chiudere gli occhi). Quindi soldi tanti, anche troppi, ma per progetti che incorporassero, lasciando solo piccoli margini di manovra, obiettivi quantificabili in questi tre campi. 

Si è prodotta così oggettivamente, e senza che nessuno lo volesse, una  sorta di onesta istigazione sistematica alla menzogna, direbbe un moralista, o più bonariamente ad “arrangiarsi” direbbero altri. Come non bagnarsi in questo mare di soldi, tanto più che se davvero i fondi dovessero essere usati solo da chi ha vera esperienza e competenza in questi campi, una buona parte di essi dovrebbe essere semplicemente restituita per assenza di capacità? “Tutti” (o quasi) si sono messi quindi comprensibilmente a fare progetti e/o chiedere posizioni di ricerca capaci di soddisfare i requisiti europei in quei tre campi, spesso piegando, in modo più o meno intelligente e creativo, la realtà a quelle domande. 

Quando tutto sarà finito questo sforzo di ingegnarsi per adeguarsi a quanto richiesto avrà probabilmente prodotto anche risultati positivi, ma è mia impressione che, al di là delle amarezze dell’inevitabile depressione che seguirà alla sbornia, l’eredità negativa costituita, in termini di cultura e comportamenti, da una grande e molto ben remunerata lezione nell’arte di “arrangiarsi” sarà ben più pesante di quei risultati. Temo anche che non sarà facile rimediare ai suoi effetti. La morale di questa terza storia potrebbe quindi essere riassunta così: per ottenere buoni risultati è meglio rispettare per quanto possibile la verità nel presente, sfuggendo all’illusione di poter comandare al futuro.

Le tre storie hanno forse anche una morale generale: è meglio imparare a fare i conti con un oste, la Storia, che va dove le pare e che quindi è possibile, entro certi limiti, navigare politicamente, cercando di indirizzarla verso il rispetto di certi principi, ma non domare sottoponendola a filosofie e piani che la Storia stessa ama mettere, talvolta anche crudelmente, alla berlina. Vedere e navigare il presente, cercando di migliorarlo, è quindi forse la strada giusta per un futuro migliore.

 

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