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Dall'immigrazione ai femminicidi. Perché chi dà i numeri definisce la nostra vita

Stefano Cingolani

Dalla numerologia all'algoritmo, poi soglie di sbarramento e sondaggi: chi vince e chi perde, chi comanda e chi obbedisce, chi è ricco e chi è povero. Ogni cosa è determinata da un insieme di cifre

Le pagelle dell’Italia, quelle delle agenzie di rating e quella dell’Unione europea? Formule numeriche. Il consenso del governo? Una percentuale. La riforma del patto di stabilità? Una questione di numeri. Le prossime elezioni europee? Un flusso contabile. Chi vince e chi perde, chi comanda e chi obbedisce, chi è ricco e chi è povero, ogni cosa è determinata da un insieme di cifre. La matematica è il linguaggio con il quale Dio ha creato il mondo, diceva Galileo. Viviamo nel regime del calculemus, ma è davvero una novità?

 

I numeri sono tutto”: la frase è attribuita a Pitagora, non sappiamo se l’abbia davvero pronunciata, tuttavia per il filosofo greco e la sua scuola di Crotone, era quella l’essenza delle cose. Nella tradizione cristiana, l’uno rappresenta la divinità; il 3 la Trinità e la perfezione divina;  il 7 la perfezione umana; il 9 che è il quadrato di 3, rafforza la completezza celeste; il 10 richiama i comandamenti.

 

E Dante? La Divina commedia è tutta un’architettura numerica: è suddivisa in tre parti dette “cantiche” e ognuna è composta da 33 “canti” (l’Inferno ne ha uno in più, ma la prima viene considerata il proemio all’opera). Il poeta attraversa 3 differenti regni: Inferno, Purgatorio e Paradiso; nel suo viaggio è accompagnato da 3 diverse guide: Virgilio, Beatrice e infine San Bernardo. L’Inferno è diviso in 9 cerchi; qui Dante incontra 3 fiere e attraversa 3 fiumi. Anche Lucifero non ha una sola faccia, ma ben 3. Si arriva al Purgatorio, alla cui porta sia accede dopo 3 scalini, formato da 7 cornici. Infine il Paradiso è composto da 9 cieli mobili. Le anime sono divise in tutti i regni in 3 gruppi. Dio stesso è una grande luce di 3 cerchi concentrici. 

 

Da Platone a Filone d’Alessandria, da sant’Agostino alle grandi scuole medievali, passando attraverso il platonismo latino e Bisanzio, la mistica dei numeri assume un suo rango fra le più influenti correnti speculative, mescolando gli elementi greci con gli orizzonti biblici. La metafisica del calcolo sarà confermata dal Rinascimento, dal Secolo dei Lumi, dalla Filosofia della natura del Romanticismo, fino all’occultismo e alla “distruzione della ragione” nel XX secolo.

 

La numerologia risale anch’essa alla notte dei tempi e attraversa sia l’oriente sia l’occidente. C’è il numero karmico che si calcola sottraendo uno al giorno di nascita. C’è il numero angelico che in realtà è una sequenza della stessa cifra. C’è il numero maestro, il primo è 11. E il numero della bestia, quel 666 il cui vero significato è ripensare se stessi, lo scrive l’astrologa Jaliessa Sipress su Cosmopolitan. E poi c’è la Kabbalah o Cabala, quella ebraica, quella ermetica, quella cristiana e guai a dimenticare la cabala napoletana, la Smorfia che serve non solo per giocare, ma per interpretare i sogni ben prima di Freud. E dalla filosofia al lotto, al centro c’è sempre lui, il numero. 

  

Oggi è sugli scudi l’algoritmo. Giorgia Meloni rifiuta di essere governata dagli algoritmi e vuole dare loro “un’etica”. Il termine, derivato dall’appellativo al-Khuwarizmi del matematico Muhammad ibn Musa del IX secolo, originario di quello che è l’attuale Uzbekistan, designa qualunque schema o procedimento sistematico di calcolo. C’è l’algoritmo di Euclide per trovare il massimo comun divisore di due numeri interi e c’è l’algoritmo per comprimere la musica in mp3 o le immagini in jpg. In realtà, si tratta di una sequenza di operazioni essenziale per risolvere ogni genere di problema, uno strumento multiuso. Se parliamo di un metodo pressoché universale come possiamo dargli una dimensione etica? Ma se l’aritmetica diventa logica, il numero una relazione, il calcolo una filosofia di vita, allora le cose possono cambiare, il regno della libertà fa irruzione in quello della necessità, rapporti che sembravano oggettivi diventano solo possibili. Ormai una sequenza di cifre è la base della politica e la statistica domina anche il campo dei valori e delle scelte. Interi paesi vengono guidati e comandati grazie a quell’approssimazione percentuale chiamata sondaggio

 

Sono i nuovi persuasori occulti, eccoli là, bucano gli schermi televisivi con le “forchette” per spiegarci chi vince e chi perde, attori di un vaudeville pronto a trasformarsi in dramma. È uno spettacolo al quale non ci si può sottrarre la sera delle elezioni, con quel succedersi sugli schermi, ansioso e ansiogeno, di Antonio Noto, il sondaggista di Bruno Vespa, o le algide certezze dell’oceanografa Alessandra Ghisleri, la sondaggista preferita da Berlusconi. Exit poll, proiezioni, tutto sembra chiaro dopo pochi minuti. Certo, alla fine vale sempre la vecchia tradizionale conta delle schede, ma solo dopo, quando ormai tutti hanno dato il loro parere, hanno costruito la loro teoria, hanno distribuito le carte. E anche quel conteggio può non dare certezze. Dal referendum su monarchia o repubblica nell’Italia del 2 giugno 1946 all’elezione di Joe Biden il 3 novembre 2020 le sorti di piccoli e grandi paesi si sono rette su approssimazioni. I monarchici italiani ancora giurano che fu un maledetto imbroglio, Donald Trump vuole ripresentarsi l’anno prossimo per rimediare a un sopruso convinto che tutto sia relativo, la giustizia, il potere, l’aritmetica, ogni cosa assoggettata alla sua volontà. Ma la stiamo tirando troppo per le lunghe. Non è meglio vedere i numeri che oggi ci tormentano e chi insiste nel metterli al centro della nostra vita?

Per l’economia e la politica, non ci sono in ballo grandi cifre, tutto ruota nell’un caso e nell’altro attorno ai decimali. Nella metafisica, lo sappiamo, pochi sono pari ai tedeschi, tuttavia l’ultima disputa si sta svolgendo in Belgio, non nella preclara università di Lovanio considerata tra le prime al mondo, ma a Bruxelles nelle anodine stanze del palazzo Berlaymont sede della Commissione europea. Viene chiamata riforma, anche se si tratta piuttosto di un aggiustamento, perché il patto di stabilità mantiene i suoi due parametri chiave: debito pubblico non oltre il 60 percento del prodotto interno lordo di ciascun paese e deficit entro il 3 per cento. La novità è che dovrebbe introdurre flessibilità: secondo le stime del think tank europeo Bruegel renderà meno stringente l’aggiustamento di bilancio per raggiungere il tetto al disavanzo entro 4 anni (allungabili a 7 come insiste la Spagna) e ridurre il debito. Il cappio al collo dei paesi più indebitati come Italia e Grecia sarà un po’ più lento. I paesi con un debito inferiore al 90 per cento del pil avranno maggiori margini, la Francia che sistematicamente viola il vincolo del deficit dovrà tirare un po’ più la cinghia, la commissione martedì scorso ha dichiarato che Parigi “non rispetta” le raccomandazioni di Bruxelles. Nei prossimi quattro anni bisognerà seguire “un percorso plausibile e rimanere su livelli prudenziali”, scrive la bozza di riforma. Che cosa sarà plausibile e prudente verrà stabilito dalla commissione in seguito a una serie di parametri tecnici. 

I numeri tornano così protagonisti, formeranno la base dei negoziati con i singoli governi, dopo di che non sarà più possibile tornare indietro a meno di cambiamenti di governo o “casi estremi”. E la flessibilità, oggetto di trattative che s’annunciano estenuanti, finirà per produrre un comportamento rigidamente previsto in tutti gli anni successivi. Un risultato contraddittorio, un sentiero pericoloso sostiene la Germania che insiste su una percentuale fissa con la quale misurare tempi, modi e ritmi del percorso. Ma quale percentuale? Il ministro delle finanze Christian Lindner aveva proposto l’un per cento annuo, sembrava propenso a scendere sotto lo 0,5, poi è arrivata la sentenza della corte costituzionale che ha ritenuto illecito il trasferimento di 60 miliardi di euro in un fondo speciale per il clima e la trasformazione ambientale sottraendolo così alla regola del “freno al debito”. Riassumiamo, a questo punto, i numeri della disputa: 60, 90, 3, 1 per cento, 4 (anni). Altro che cabala. Al lotto si potrebbero giocare una bella cinquina. Ma non dimentichiamo nemmeno le cifre sull’Italia fornite dalla commissione che ha dichiarato “non pienamente in linea” il debito pubblico del 140,6 per cento rispetto al pil, la crescita di appena lo 0,9 e una spesa che sfora le raccomandazioni europee dello 0,5. Un bel terno secco. 

Se i conti dell’economia sono limati senza soluzione di continuità, quelli della politica vengono fatti e disfatti come la tela di Penelope. Come andrà il Pd alle elezioni europee? E chi può dirlo, soprattutto perché non sappiamo con chi starà e che cosa dirà tra otto mesi. Eppure è un già tutto uno sciorinare di cifre. Lo stesso vale per gli altri partiti, salvo quello di Giorgia Meloni, ma attenti a fare i conti senza l’oste. Il bombardamento degli aruspici mostra che Fratelli d’Italia s’attesta al di sopra del 26 per cento che aveva ottenuto alle elezioni politiche il 25 settembre 2022, la Lega di Matteo Salvini è tornata in doppia cifra e ha oltrepassato quota 10, Forza Italia si attesta tra il 6,5 per cento e il 7,5 per cento. Il centrodestra viaggia sempre tra il 43 e 45 per cento, con punte del 46 per cento. E sembra tutto sommato stabile. L’opposizione, invece, annaspa. I Dem sono sotto il 20, incalzati dal M5s di Giuseppe Conte, quello di Beppe Grillo è stato sciolto di fatto dallo stesso fondatore che non rinuncia pur tuttavia ai 300 mila euro per la propria “consulenza”. I numeri, sempre i numeri, nessuno sfugge alla loro malìa che per il fu Terzo polo si trasforma in magia nera: “Separati, Matteo Renzi e Carlo Calenda a malapena riescono ad arrivare alla soglia vitale per le elezioni europee, che è il 4 per cento”, sentenzia Alessandra Ghisleri. Andrà davvero così? Intanto i sondaggisti scuotono la sacchetta delle loro palline ed estraggono i simboli dell’“ingannevole e amorale diletto” come il frate domenicano Carlo Maria Rocco chiamava nel XVII secolo la tombola. Alla fine Carlo III di Borbone la rese legale e incassò gli introiti. Non siamo arrivati a quel punto, ma ci stiamo piano piano avvicinando e le televisioni, a partire dalla Rai, aprono le danze. 

Chi dà i numeri sui fenomeni sociali più laceranti? Il governo, l’Istat, il Censis, i giornali, la tv che resta il principale strumento di formazione del comune sentire? Si dice che nessun giovane la guarda più, ma quanti sono i giovani in un paese di vecchi? Circa nove milioni e mezzo sotto i 35 anni si sono recati alle urne nel 2022 su 29 milioni di votanti. E questi numeri non sono immaginari. Lo stesso vale per la violenza sulle donne. Su 285 omicidi commessi tra il primo gennaio e il 12 novembre, 102 vittime sono donne (il 35 per cento). Se entriamo tra le mura domestiche o mettiamo il dito tra le coppie, troviamo 125 morti dei quali 82 donne. Più o meno che nel passato? Secondo il ministero della Giustizia che ha analizzato le sentenze emesse, nell’ultimo decennio in media sono state uccise 150 donne ogni anno, con una punta di 179 nel 2013. Il femminicidio, definito a partire dagli anni 90 come l’uccisione per motivi di genere, rappresenta l’85 per cento delle morti violente tra le donne. Per oltre la metà dei casi i motivi sono definiti “sentimentali”. Questa terribile contabilità parla da sola eppure non dice tutto, non spiega perché oggi dà scandalo e non suscitava lo stesso orrore anni fa. Qui non è l’aritmetica, ma la sensibilità collettiva a fornire la spiegazione. Giulia Donato prima e Giulia Cecchettin poi hanno scosso le menti e i cuori anche di chi per troppo tempo tendeva a considerare il fenomeno come “culturale”, mero residuo di un passato patriarcale nell’Italia arretrata. Eppure, accidenti alla statistica, è la Germania che raggiunge il triste primato con oltre 200 casi l’anno, vuoi vedere che il patriarcato resiste più tra i tedeschi? Se prendiamo la percentuale di femminicidi per abitanti nei paesi europei in cima c’è la Lituania seguita da Moldavia, Lettonia e Bielorussia. L’Italia è in fondo a questa scala di sangue, preceduta da Svezia e Spagna, secondo le stime di Openpolis. Sono proporzioni che possono cambiare se facciamo una differenza tra femminicidio in senso stretto e omicidi di donne, oppure se scegliamo le denunce, più numerose e frequenti nei paesi del nord. Dunque anche in questo caso le cifre son ballerine e la musica cambia in rapporto a chi la suona. L’unica cosa certa è che i maschi italiani non sono più violenti degli altri, una conclusione che sfida il senso comune e i pregiudizi. 

Il contesto, l’ottica, il punto di vista, tutto ciò non mette in discussione la forza dei numeri, ma smentisce la loro mistica idolatra. Prendiamo un altro fenomeno di per sé oggettivo: l’arrivo di migranti clandestini in Italia viene misurato con grande pignoleria e usato il più delle volte per propaganda politica. Sono tanti o sono pochi a seconda delle convenienze. Non si può negare che ne sbarchino più che nella media europea, ma è anche vero che la Germania ne ha ospitati di più soprattutto negli ultimi dieci anni, mentre in percentuale alla popolazione è la Svezia a salire in cima.

 

Attenzione, però, paesi coloniali come la Gran Bretagna non considerano straniero chi proviene dal Commonwealth, mentre in Francia la penetrazione dal Maghreb ci porta indietro di un secolo. Il tempo e lo spazio diventano relativi, non relativizzano le cifre, ma senza dubbio il modo di leggerle e le conseguenze da trarne. Nel 2022 vivevano nell’Unione europea 446 milioni di persone, 38 milioni (l’8,5 per cento) nate fuori dalla Ue. Negli Stati Uniti la quota degli stranieri sale al 13,5 per cento, in Norvegia al 16, in Australia al 29,2, la Svizzera con il 30 per cento possiamo considerarla un caso a sé. Sostituzione etnica? Invasione? I dati questa volta parlano un linguaggio opposto a quello comune.

 

I liberali danno ragione ai numeri, i conservatori fanno parlare le impressioni, le sensazioni, le paure e molto spesso i pregiudizi. La matematica stessa diventa opinione nel momento in cui la disciplina che studia le quantità viene trascinata nella dimensione della qualità, o meglio della volontà e, quindi, della scelta. I numeri mentono o dicono la verità? A meno che non giochiamo al bingo, è una domanda senza senso perché siamo noi a mentire o a dire la verità.

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