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l'editoriale del direttore

Ucraina, vaccini, Israele, femminicidi. Uscire dalle bolle per difendere il free speech

Claudio Cerasa

In un’epoca di pensieri assoluti, la fede assoluta nelle proprie idee porta a replicare offline i metodi adottati sui social: ti cancello. La rivoluzione della modernità è fare i conti con il torto (pure a cena). Gran lezione di Bloomberg 

In un’epoca di assoluti, di pensieri forti, di convinzioni granitiche, di battaglie di civiltà, l’unica rivoluzione possibile, nel dibattito pubblico, è promuovere con forza un’espressione necessaria, salvifica, divenuta però drammaticamente tabù: “Avere torto”. In un’epoca di assoluti, di pensieri forti e di convinzioni granitiche, ogni opinione diversa dalla nostra è diventata eretica, irricevibile, inascoltabile, censurabile. Semplicemente: da cancellare. L’epoca in cui ci troviamo oggi è un’epoca in cui i grandi temi ti spingono a schierarti, a metterti in gioco, a non nascondere le tue idee. E visti i temi enormi che vi sono in ballo, oggi, si capisce che il confronto non sia sempre semplice.

E’ doloroso, per chi ha fiducia nella scienza, doversi confrontare con chi pensa che i vaccini piuttosto che salvarci dalla pandemia ne abbiano creata un’altra. E’ doloroso, per chi considera prioritaria sopra ogni altra cosa la lotta dell’umanità contro il cambiamento climatico, doversi confrontare con chi suggerisce di non utilizzare un approccio ideologico e fanatico per tutelare l’ambiente. E’ doloroso, per chi ha a cuore la difesa della democrazia, doversi confrontare con chi pensa che la Russia, nella guerra in Ucraina, sia il paese provocato e non il paese invasore. E’ doloroso, per chi ha a cuore la memoria dell’Olocausto, doversi confrontare con chi pensa che Israele, di fronte all’assaggio di una nuova forma di persecuzione, di una Shoah, sia l’aggressore e non l’aggredito. Così come è doloroso, per chi ha a cuore la difesa delle donne, doversi confrontare con chi suggerisce di non fare di tutta un’erba un fascio, di sensibilizzare sul tema senza demonizzare la società occidentale e senza trasformare ogni maschio in una potenziale minaccia per ogni donna del mondo.

In un’epoca di assoluti, di pensieri forti e di convinzioni granitiche, e in un’epoca in cui la condivisione delle proprie opinioni è divenuta la principale leva per affermare la propria identità, l’idea di mettersi in discussione è diventata come la spia di una debolezza interiore da stigmatizzare a ogni costo. Ragionamento: più sono convinto di aver ragione, più sono convinto di essere dalla parte del giusto, e più sarò portato a non discutere con chi la pensa in modo diverso da me. Fino al punto, non raro, di considerare chiunque non la pensi come me sui temi che reputo non negoziabili, cioè tutti, meritevole di essere espulso dal dibattito pubblico, cancellato dal consesso democratico e financo dalla propria vita. E se non la pensi come me sei un “negazionista”, un “estremista”, un “fascista” (a forza di dire al lupo al lupo, poi, quando arrivano i veri fascisti, i veri estremisti, come Hamas, si capisce perché non gli si presti troppa attenzione). 

Ora. Pensate a quante storie avete letto negli ultimi anni di professori espulsi dalle università per le proprie idee. Pensate a quante storie avete letto negli ultimi anni di testi di classici del passato cancellati perché non in linea con un nuovo pensiero dominante. Pensate a quante cene avete scelto di declinare negli ultimi anni per evitare di confrontarvi con persone che hanno idee diverse dalle vostre. E pensate a quanti rapporti avete scelto di congelare, negli ultimi mesi, per evitare di dover ascoltare dai vostri amici idee opposte alle vostre. Meglio cancellare quella cena, avrete pensato. Meglio cancellare per un po’ quella amicizia, vi sarete detti. Meglio cancellare quel pensiero inascoltabile, avrete sussurrato dandovi di gomito con il vostro vicino di bolla.

E’ possibile che una delle cause del nostro narcisismo cognitivo sia da collegare alla nostra adesione volontaria alla dittatura degli algoritmi, che oltre a spingerci a darci di gomito nelle nostre bolle, quanto siamo belli noi che la pensiamo allo stesso modo, quanto ci piaciamo noi che abbiamo un pensiero simmetrico, quanto ci capiamo noi che abbiamo le stesse convinzioni granitiche, ci spingono a replicare anche offline i metodi adottati sui social – metodi divenuti spesso qualcosa di simile più a una macchina dell’oltraggio che  a un ingranaggio del confronto (si espellono tra l’altro professori ormai con la leggerezza con cui si bloccano i contatti che non ci piacciono su X). E’ possibile che sia così. Ma i piccoli frammenti di vita che abbiamo provato a mettere insieme sono lì a testimoniare un fatto che è l’opposto di quello che potrebbe risultare evidente vista la premessa da cui siamo partiti. E il fatto è questo: la cancellazione del pensiero dissonante nasce anche dalla consapevolezza di avere un pensiero che sulla carta si presenta come forte ma che nella realtà si mostra come debole e che proprio per questo si sceglie di non mettere a confronto con quello del prossimo. La cifra della nostra epoca non è dunque il deficit di “free speech”, o almeno non è solo quello, ma è l’incapacità di sapere mettere in conto la possibilità che la fede assoluta nelle proprie idee, nelle proprie convinzioni granitiche, possa essere smentita dai fatti, dalla storia, dal confronto con gli altri.

Michael Bloomberg, imprenditore, miliardario, politico, indipendente, ex sindaco di New York, tre giorni fa ha scritto un editoriale interessante sul Wall Street Journal in cui, osservando da ebreo newyorchese il numero impressionante di manifestazioni universitarie a sostegno più della causa di Hamas che della causa di Israele, si è posto la domanda giusta: come è possibile che siamo arrivati a questo? Meglio ancora: come è possibile che vi siano studenti, accademici e professori che considerino in modo sistematico le posizioni che non condividono come posizioni che non possono avere cittadinanza nel dibattito pubblico?

Secondo Bloomberg, buona parte della responsabilità di questo approccio, negli Stati Uniti, risiede in un modello educativo che le università stanno assecondando. “Per anni, i capi dei college hanno permesso che i loro campus diventassero bastioni dell’intolleranza, permettendo agli studenti di soffocare la voce degli altri, creando ‘spazi sicuri’, scoraggiando o escludendo punti di vista opposti, consentendo ai campus di diventare istituzioni di conformità e trasformando le migliori università americane in qualcosa di simile a realtà sovietiche nella loro mancanza di diversità di punti di vista. Negli ultimi anni, questa combinazione di conformità universitaria e intolleranza è peggiorata. Ed è peggiorata in un momento preciso: dal momento in cui il corpo docente ha scelto di non  insegnare agli studenti come impegnarsi in un discorso civile, sfidando ed espandendo le loro menti. E quando agli studenti non si insegna a impegnarsi in discussioni e dibattiti costruttivi, si sceglie di spingerli ad affidarsi automaticamente a slogan e insulti”.

Il ragionamento di Bloomberg vale per il mondo accademico americano, naturalmente, ma può essere applicato anche ad altri contesti, anche ad altre realtà, anche nella nostra quotidianità. E in un’epoca di assoluti, di pensieri forti, di convinzioni granitiche, di battaglie di civiltà. L’unica rivoluzione possibile, nel dibattito pubblico, non è solo il confronto, ma è la capacità di ciascuno di noi di difendere le nostre idee granitiche uscendo dalla bolla, senza aver paura di poter avere torto, senza pensare di considerare chiunque sia fuori dalla nostra comfort zone come se fosse un fascista, senza pensare che l’unico modo per dimostrare che il proprio interlocutore stia sbagliando sia quello di cancellarlo. E senza dimenticare, come dice Bloomberg, che il primo estremismo da combattere è quello portato avanti da chi considera giusto un mondo in cui la mancanza di diversità di punti di vista diventa il modo migliore per poter affermare la propria libertà d’espressione. Si può aver torto anche quando si pensa di avere ragione e si può aver ragione accettando che qualcuno abbia torto. E ora coraggio, andate a cena con quel vostro amico che ha osato dire l’opposto di quello che vi suggerisce la vostra bolla.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.