Jane Birkin, la donna che il mondo scambiò per una borsetta

Fabiana Giacomotti

Se ne va a settantasei anni una attrice ottima e una cantante niente male. Ma borsa batte set dieci a uno. Se avevate ancora bisogno di una prova della potenza della società dei consumi e delle cosiddette “icone”, eccola

Non è stato un ritardo, è stato un esperimento socio-mediatico. Prima di scrivere in morte di Jane Birkin a settantasei anni che non sono più molti, ma fra le quali credo che il crepacuore c’entri qualcosa con tutto quel che ne consegue – la figlia Charlotte Gainsbourg che due anni fa le dedicò un documentario biografico raccontò che farle superare la diffidenza era stata un’impresa, teneva sotto controllo la leucemia ma il suicidio della prima figlia, Kate, dieci anni fa, l’aveva segnata irreversibilmente - ho aspettato il tempo necessario per capire quanti, fra colleghi, influencer, commentatori di social per diletto e per vanità, avrebbero titolato/paragonato/dato più spazio alla borsa che le era stata dedicata dal compiantissimo Jean Louis Hermès rispetto all’attrice discreta e alla cantante niente male che è stata.

  

Borsa batte set del cinema dieci a uno, escluso un tweet sugli “occhi a rana sulla sedia elettrica, ma non posso vivere senza di te”, osservazione apocrifa ma in ogni caso efficace che pare avesse lanciato a Serge Gainsbourg dopo uno degli epici litigi (lui beveva come una spugna ma poteva “ascoltare Grieg il pomeriggio e parlare con Patrick Sébastien alle venti”, lei era favolosamente insicura, di quel genere fintamente succube che manda gli uomini ai pazzi). Se avevate ancora bisogno di una prova della potenza della società dei consumi e delle cosiddette “icone”, eccola. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, il mondo che scambiò un’attrice per la borsa dei desideri. Birkin era abbastanza spiritosa da riderci sopra: “I’m the bag”, si annuncio al pubblico di giapponesi che l’aspettava per un concerto, anni fa, come ricordava “Le Monde”.  Qualche altra testata non ha resistito e accanto ai commenti dei colleghi sulla sua scomparsa, soprattutto francesi, perché negli anni lei era stata assimilata, diventando “la più inglese delle star francesi”, ha ricordato di quanti anni sia la lista d’attesa media, evidentemente senza sapere che a qualcuno è concesso saltarla; qualcun altro ci ha ricordato per la decima volta che se le è procurate accendendo un mutuo. Chissà che cosa le passò per la testa, lei che non era certo un’”arrivata” o una di quelle arrampicatrici sociali che ritengono il possesso di una Birkin il primo gradino dell’ascesa, ma un membro dell’upper class inglese dalla nascita – suo padre era ufficiale della Royal Navy, sua madre, Judy Campbell, musa di Noel Coward - il giorno in cui raccontò a una rivista come fosse nata quella borsa: l’incontro in aereo con Hermès, il cestino di paglia che si rovescia spargendo tutto il proprio contenuto fra i sedili, le apprensioni di giovane madre (le era nata da poco la terza figlia, Lou, avuta dal regista Jacques Doillon), il desiderio di un contenitore elegante eccetera.

 

Chi si occupa di moda, ma un po’ chiunque, conosce questa storia a memoria. Sulla leggenda della borsa Birkin, che include una specifica branca del mercato vintage sulla quale piccole case d’arte un po’ periclitanti hanno ristabilito le proprie fortune, sono stati scritti saggi e novelle (“Il cacciatore delle Birkin”, storia appena romanzata di quel piccolo plotone di abili mediatori di borsette che, fra l’Asia e gli Usa, permette a qualche altro fortunato di evitare la temutissima lista d’attesa con gli addentellati e gli annessi, per esempio acquistare per anni piccoli oggetti e accessori acquisendo benevolenza e punti di merito); sulla donna che l’ha ispirata molte di meno. Tolti i critici cinematografici, ma anche in quel caso non metterei la mano sul fuoco, quasi nessuno sarebbe in grado di elencare due dei film dove ha recitato in un ruolo significativo (vi aiuto: “Blow Up”, Michelangelo Antonioni, che tutti citano e che ormai quasi nessuno ha visto, dove recitava sempre nuda; “La piscina” di Jacques Deray, poi rifatto la Luca Guadagnino). Rimane ancora, ma giusto fra i boomer della prima fase, cioè i nati nei primi Anni Cinquanta, una lontanissima eco della canzone-scandalo “Je t’aime moi non plus”, di cui nell’agosto del 1969 l‘Osservatore Romano pubblicò la traduzione in italiano (erano finiti i tempi sabaudi in cui mezza Italia parlava francese) perché fossero ben chiari i motivi della censura da parte di Radio Rai. Fra i millennial, si corre il serio rischio che pochi sappiano che dietro alla borsa c’è, o meglio c’era, un volto e un nome.

  

   

Eppure, è proprio la moda che si è appropriata. Hedi Slimane, che modella tuttora il proprio stile sul suo,  deve moltissimo a quella ragazza eterna che possedeva il “nonsoche”, lo “chic”, e che con pochissime coetanee, tutte inglesi, tipo Twiggy o Penelope Tree, rivoluzionò l’immagine femminile dell’epoca, scavalcando a destra la seduzione certo frizzante ma un pelo grossière di Brigitte Bardot con quella acconciatura “choucroute”, a cavolo, alta sul capo, che non a caso è ancora imitata in provincia. Dai miniabiti che le confezionava Paco Rabanne – che mai hanno avuto più senso di quando esponevano le sue gambe nude  – ai completi maschili degli ultimi concerti, alle canotte da uomo accostate ai jeans, fino ai capelli lasciati liberi e spioventi, Birkin è stata il simbolo dello stile che ancora conosciamo come “boho-chic” e che è in assoluto inimitabile perché presuppone quel fisico lì, quella cultura lì, quelle ossa lì. E che no, non ha bisogno di borse griffate perché le basta un cestino. Nel 2004, il cantante dei Mickey 3D, Mickaël Furnon, aveva composto una canzone, “Je m’appelle Jane”, sotto forma di dialogo con la star, senza reticenze o falsi pudori. “Dimmi un po’ Birkin, perché non sei ingrassata invecchiando, sei sempre bella”. “Perché sono furba”.

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