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Tempi duri per gli influencer. Ora l'esercito dei content creator è in crisi

Fabiana Giacomotti

Dopo la creator transgender che ha fatto crollare le vendite di birra Budweiser e la rivolta contro le influencer per Shein, la pubblicità torna sotto il controllo dei brand. L’improvvisazione non paga

La sintesi migliore del fenomeno “crisi dell’influencer marketing” – già in essere da qualche tempo ma diventata evidente dopo il caso della lattina di birra Bud Light personalizzata da un creator transgender che ha fatto crollare le vendite del marchio negli Usa del nuovo conservatorismo – è di Giovanna Ferrero, responsabile della strategia digitale del Salone del Mobile ed ex manager di Havas e WPP. Quando le chiedo perché un sistema che per dieci anni è cresciuto senza sosta e che fino a tre mesi fa in Italia fatturava circa trecento milioni di euro abbia iniziato a mostrare crepe profonde e vere e proprie rivolte social, un caso per tutti la messe di insulti seguita al viaggio di un gruppo di influencer negli stabilimenti di Shein, marchio cinese simbolo dell’ultra-fast fashion che mira da anni a quotarsi a New York fra denunce e polemiche per le condizioni di lavoro delle sue fabbriche, risponde che TikTok ha cambiato fin troppo le carte di una tavola già incerta sulle gambe, che gli algoritmi delle piattaforme cambiano così rapidamente e in modo così imprevedibile da imporre un costante adeguamento dei contenuti, che non tutti i settori possono beneficiare del valore dei creator e la moda di alta gamma è sicuramente uno di questi e che, in fondo, l’unico modo per verificare davvero il tasso di conversione di uno di questi creator sia di associarlo a un codice sconto o a un link di verifica. Tolto l’aspetto non secondario di un modello mediatico dove, per la prima volta nella storia, non è il contenitore a dettare legge ma il distributore, che sarebbe come se l’edicolante sotto casa determinasse i contenuti di questo articolo, se potessimo riportare in vita i primi pubblicitari del Diciannovesimo secolo, diciamo i soci dell’agenzia Ayer nella Boston del 1830, non potrebbero che concordare con Ferrero: dopotutto i coupon inseriti nei giornali sono un espediente pubblicitario coevo alle prime pubblicità di “immagine” (la loro era di un pianoforte), dunque perché stupirsi se al posto di una rivista dalla quale ritagliare un talloncino da inviare alternativamente all’azienda, al negoziante più vicino o alla rivista stessa si inserisce su Instagram o su TikTok il codice fornito da un coupon umano, che oltre ad offrire lo sconto parla, si muove, ride e intrattiene. 

Lo scorso aprile, questa trentenne determinatissima ha provato a tirare fuori il Salone del Mobile, gloria internazionale, dalle secche in cui si era incagliata dopo che vent’anni di successi del Fuorisalone avevano instillato nei meno accorti, che sono la maggioranza, la convinzione che la Design Week corrispondesse a una settimana di spumantini gratuiti e happening mangerecci nei negozi dove mai oserebbero avventurarsi, accompagnati per di più da una messe di comode sedie sulle quali accomodarsi per intere serate. Vivendo in una delle zone del Fuorisalone, pochi mesi fa avevo trovato appoggiato al muretto che affianca il portone di casa un gruppo di ragazzi che spuntava dalla mappa del centro città i punti degli “aperitivi più fighi di stasera”. Interesse per la mobilia? Quale mobilia? “Tanti ignoravano perfino che il Fuorisalone fosse lo spin-off, il derivato di una fiera che si tiene a Rho Pero e di un settore che dà lavoro a centinaia di migliaia di persone”, ammette Ferrero. Che il Salone del Mobile avesse dei problemi di riconoscibilità, nell’inglese del marketing “awareness”, o per meglio dire di variazione di senso e di segno, suona abbastanza incredibile se si considera che in quei giorni trovare una stanza o un tavolo in un qualsiasi ristorante milanese è pressoché impossibile, ma di converso è questo anche il motivo per cui la manager ha invitato in città un certo numero di questi creatori di contenuti specializzati, fra cui la tiktoker sino-americana Yayayage, e ha chiesto loro di raccontare per video, testi e voce i padiglioni, i volti e i mobili e i complementi esposti: “Non dovendo vendere niente, i biglietti disponibili erano comunque esauriti e il Salone è un appuntamento destinato principalmente agli operatori del settore, abbiamo ottenuto il risultato che ci prefiggevamo, e cioè milioni di views”, che hanno contribuito a ristabilire gli equilibri della semantica e gli scopi dell’appuntamento. Oggettivamente, una pagina di pubblicità classica non sarebbe bastata, così come non sono più sufficienti i tiktoker e gli influencer per dare credibilità a un marchio o a un settore. Anzi. Durante le ultime sfilate maschili, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, che fra il 2016 e il 2017 furono fra i primi ad invitare un numero considerevole di influencer alle proprie sfilate, contando tanto sulle loro potenzialità di moltiplicazione dell’immagine quanto sull’appetibilità della notizia presso i media tradizionali, invidiosissimi e irritati per la progressiva sostituzione ma professionali al punto di registrare puntualmente l’ascesa di un fenomeno che in apparenza stava determinando la loro estinzione, hanno detto a Repubblica di aver eliminato buona parte della compagine di content creator ed esibizionisti a vario titolo dalle proprie liste, per via di una scarsa rilevanza non solo numerica del loro impatto sui follower, veri o presunti (“pochissimi lo sono”), ma per la preparazione e la cultura specifica: “Non possono essere l’unico esempio: i giovani hanno bisogno di basi”. Basi che, oggettivamente, latitano, e di certo non solo nella moda, ancorché e per converso sia sempre più evidente che le basi del successo di influencer e tiktoker non risiedano in un’evidente supremazia culturale e sociale quanto nel suo contrario: quelli di maggiore successo dicono e fanno, meglio e con più garbo o in luoghi molto desiderati, cose che faremmo o che già facciamo tutti. 

Per fare un esempio rilevante in un settore contiguo, quello della bellezza e del trucco, non è da escludere che lo strabordante successo di Clio Zammatteo, più nota come Clio Make Up, non sia estraneo all’assoluta ovvietà dei suoi consigli e dei suoi tutorial, cioè di gesti e idee che si trovano da decenni su qualunque rivista o che ci ha insegnato la mamma negli anni dell’adolescenza, perché in caso contrario una gentile signora che, oltre a vendere i propri prodotti, ti ricorda di struccarti la sera e ti insegna “ad accettare le rughe” non godrebbe di un seguito di 3,4 milioni di persone alla data di oggi. “Non dobbiamo mai dimenticare che questo è un fenomeno guidato dalla percezione, dunque dalla credibilità che i creatori di contenuti”, in realtà e a tutti gli effetti testimonial di brand, “riescono a ottenere con i propri post: l’attuale, evidente ridimensionamento è dettato da una maggiore consapevolezza e proattività del pubblico” dice Tiziano Tassi, ceo di Caffeina, agenzia digitale abbastanza da aver compreso già alla data della fondazione, lo scorso decennio, che concentrare i servizi sul boom dell’influencer marketing sarebbe stato pericoloso, oltre che dannoso per una fascia molto ampia di clienti: se il segmento del lusso ha atteso anni prima di approcciare i social e gli influencer, e spesso lo fa tuttora maldestramente, cioè secondo logiche di massa che non si accordano con chi, come nel caso di Schiaparelli o di Balenciaga, non vende nemmeno profumi o rossetti ma capi esclusivi nel senso proprio, cioè di costo molto escludente, e ha pure storie complicatissime da approcciare per i molti milioni di persone incapaci perfino di posizionare Roma e Parigi sulla carta geografica, per non dire la Getaria natale di Cristobal Balenciaga. 

In Italia, il segmento dei content creator, cioè e ribadiamolo “creatori di contenuti” che, scusate, suona già come una sfida – contenuti su cosa, per chi, e soprattutto a quale scopo che è poi il punto vero della questione – conta oltre trecentocinquantamila professionisti (per trecento milioni di euro, fate pure la divisione del pollo, non c’è troppo da stare allegri e nemmeno di che pagare l’affitto, è ovvio che si debbano reclamare pasti e soggiorni gratuiti in cambio di buone recensioni, un po’ come Balzac quando lisciava il padrone di casa sulle pagine de “La mode” per farsi fare lo sconto sull’affitto e che comunque sapeva scrivere). Questo piccolo esercito, formato perlopiù da millennial ma anche da genitori ambiziosi e ultrasessantenni guidati più dalla voglia di divertirsi che di guadagnare, si è compattato da cinque anni in un’associazione, Assoinfluencer, che punta al riconoscimento Ateco e sul proprio sito pone quesiti piuttosto rilevanti che la legislazione corrente non prende in considerazione, per esempio “l’inquadramento lavorativo dei minori nella creator economy” (non ci sono solo i figli dei Ferragnez e l’undicenne che li ha sfidati sul modello educativo e che il Codacons si è affrettato a premiare; negli anni dell’individualismo e dell’affermazione del “sé profondo” come scopo ultimo i genitori modello Maddalena Cecconi di “Bellissima” proliferano). Il sito di Assoinfluencer e degli epigoni sul tema della formazione, così come i volumi scritti in questi anni da vecchi e nuovi guru del marketing (alla fine non si scappa, quando c’è da studiare sul serio si torna alla carta stampata) contempla anche suggerimenti e corsi specifici per mantenere  in equilibrio contenuti adatti alle sponsorizzazioni e alla vendita con la personalità e lo stile del profilo mantenendo al contempo il rapporto di fiducia con i follower, e c’è da capire perché: la vita del content creator è difficile e incerta come quella del giornalista free lance, con la differenza che, nel momento in cui pubblica un articolo su una testata registrata, un giornalista anche non professionista ha alle spalle una testata, cioè una istituzione, in grado di offrirgli almeno un minimo di copertura etica e a prendersi gran parte della responsabilità per i “branded content” o “contenuti brandizzati”, insomma di quella pubblicità in forma estensiva e narrata, secondo il modello anni Quaranta di David Ogilvy, che ormai rappresenta la principale fonte di sostentamento dei periodici femminili. Un creatore di contenuti è invece e nella realtà dei fatti un testimonial multiplo e in genere sottopagato, dunque esposto a ogni genere di ricatto o comunque di sudditanza nei confronti del brand che lo ospita o gli fornisce prodotti da valorizzare sui propri account, cioè da pubblicizzare. Chi riesce a dare vita alle “interessanti collaborazioni” con i brand, cito uno dei tanti comunicati che accompagnano queste iniziative, è un numero limitatissimo di creatori: gli altri accumulano prodotti senza valore e iniziative di scarsa rilevanza che, pur ormai dichiarate per legge sui social, finiscono per far loro perdere inevitabilmente di credibilità. 

Resta da capire come sia stato possibile che, per un decennio, un pubblico immenso abbia ritenuto che la cosiddetta “disintermediazione” offerta dagli influencer fosse garanzia di “autenticità”, ignorando che al costo di produzione dei loro contenuti dovesse corrispondere un compenso, ma è probabile che questo processo, questa logica un po’ perversa di pensiero abbia seguito le stesse dinamiche per le quali si è ritenuto che il citizen journalism avrebbe sostituito la professione. In ultima analisi, l’ascesa molto resistibile dell’influencer marketing è un derivato apparentemente superficiale della crisi generalizzata e profonda delle cosiddette élite e la nuova affermazione del populismo. Non ci sono dubbi che in molti casi, quello della morte di Nahel per mano di un poliziotto che ha dato origine a una settimana di tumulti in Francia ne è l’esempio più recente e lampante, la testimonianza filmata di chi era presente sia fondamentale per la verifica dei fatti. Ma scambiare una testimonianza casuale per giornalismo di inchiesta è una pessima idea, per non dire una testimonianza pagata, specifica questa che ci ricollega al caso iniziale di Shein e alle accuse che sono state rivolte agli influencer invitati di aver fatto “propaganda”. Uno dei follower ha persino realizzato un video satirico che sovrapponeva a questo viaggio immagini della Triangle  Shirtwaist Factory, la fabbrica che andò a fuoco nel 1911 nel centro di Manhattan, provocando la morte di centoquarantasei sarti, perlopiù donne, che vi erano tenute a lavorare chiuse a chiave: una tragedia tutt’oggi indimenticata. La verità è che a mano a mano che l’influencer marketing ha preso piede, uscendo dalla nicchia mediatica, i rischi connessi con la presunta autenticità e indipendenza dei creatori sono aumentati, e insieme con questi la corrispondenza delle campagne con gli obiettivi.

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