Rubens, "Caino e Abele" (Wikipedia) 

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Non c'è merito ad avere merito

Giacomo Papi

Le cinque F su cui si è creato un mito: Fatica, Forza, Fortuna, Furbizia, e Ferocia. Un concetto che, da qualunque lato lo si guardi, implica l’accettazione del conflitto come legge delle società umane. E riafferma la legge del più forte

Ho il dubbio che nel dibattito sul merito – a cui il governo ha intitolato la metà del ministero dell’Istruzione e che sui giornali ogni giorno riceve pubblici elogi e storicizzazioni, anche in relazione alla storia della sinistra italiana, come nel bell’articolo di Giovanni Belardelli pubblicato due giorni fa dal Foglio – nessuno si sia ancora chiesto davvero che cosa intendiamo per merito e se sia possibile una definizione condivisa. Il concetto di merito si è affermato con l’ascesa della borghesia, per affermare il diritto di ognuno a conquistare potere e ricchezza in base alle sue capacità, e non ai titoli ereditati alla nascita per diritto divino. Nella nostra cultura, quindi, il merito è il diritto di ognuno a una ricompensa terrena per quello che ha fatto, il rapporto tra capacità, fatica e risultato. Il merito legittima il successo, di cui appare contemporaneamente causa e giustificazione morale. Nel calcio è chiarissimo: quando diciamo che una squadra ha vinto con merito, diciamo che la sua vittoria è giusta. L’idea di merito, insomma, inscrive gli atti degli uomini in una cornice di valori. Il merito è il concetto laico con cui abbiamo sostituito il Fato, la Provvidenza e la Grazia per convincerci che esista una giustizia in quello che accade. 

La sua ambiguità consiste nel fatto che le caratteristiche che definiscono il merito hanno ben poco di morale, cioè non riguardano il bene o il giusto, ma ciò che è funzionale e adatto. Potremmo ricondurre queste caratteristiche a cinque parole che iniziano per F: Fatica, Forza, Fortuna, Furbizia, e Ferocia, intesa come grinta nel conseguire un risultato. E’ evidente che non c’è alcun merito morale nell’essere più resistenti e disponibili alla fatica, forti, capaci di cogliere la fortuna, furbi o cattivi degli altri. Anzi. “I capaci e meritevoli”, citati dall’articolo 34 della Costituzione che lega, appunto, la “scuola aperta a tutti” al merito, non sono necessariamente i migliori, o almeno non in senso morale. Sono i più adatti a competere. Siccome l’articolo 34 afferma che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, a queste cinque F se ne potrebbe aggiungere un’altra, la Fame, che infatti viene spesso citata tra le caratteristiche vincenti di una persona. In questo modo, però, si arriverebbe a un altro paradosso: a essere favorito sarebbe chi possiede meno, perché più voglioso di conquistare quello che non ha. 

Il concetto di merito, insomma, da qualunque lato lo si guardi, implica l’accettazione del conflitto come legge delle società umane. E riafferma la legge del più forte perché considera giusto (cioè naturale) che il più forte (o adatto) prevalga sul più debole (o inadatto). Il merito, cioè, è profondamente connesso al darwinismo e al liberalismo, e costituisce il nucleo ideologico del capitalismo perché offre una giustificazione morale alla competizione, accettata come condizione naturale del mondo. Per farlo, però, confonde programmaticamente i migliori con i più adatti. In che senso, per esempio, chi è più ambizioso sarebbe migliore di chi non ha ambizione? E perché mai chi ha successo sarebbe meglio di chi non ce l’ha? Comunque la si giri, c’è qualcosa di mostruoso nella fede quasi religiosa, nel fatto che il valore di un individuo si possa misurare in base a quello che ottiene, anche a danno di chi non ha fatto la sua stessa fatica, avuto la stessa determinazione, intelligenza o furbizia, insomma di chi non ha meritato. 

A ogni conquista corrisponde sempre una perdita, e ogni merito non è una scelta ma qualcosa a cui si è obbligati per natura, così come l’ozio appartiene all’ozioso e la paura al pauroso. Si dirà, il merito consiste proprio nella capacità di reagire ai propri difetti. Ma che merito ci sarebbe nel possedere questa capacità? La verità è che non c’è alcun merito ad avere merito, perché il merito dipende dalla natura o dall’educazione, cioè da fattori per cui non si ha alcun merito. La natura è il modo in cui si nasce, e non c’è alcun merito a nascere in un modo o in un altro, e l’educazione è ciò che si impara dall’ambiente in cui si cresce, che ancora una volta non dipende dal merito. La meritocrazia prescrive solo che il forte prevalga. Non si preoccupa di proteggere il debole. L’articolo 3 della Costituzione afferma: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Se gli ostacoli vanno rimossi è per mitigare la competizione, non per esaltarla, perché “il pieno sviluppo della persona umana” non può consistere soltanto, e per chiunque, nella possibilità di competere e avere successo.