Norman Rockwell, “Il cugino Reginald fa lo spelling di Peloponneso”, 1918 (Wikipedia) 

I tifosi del demerito

Maurizio Crippa

Lo scivolone della sinistra che anziché creare condizioni di crescita sociale vuole punire “i privilegiati”

Dove finisce la sinistra c’è la destra, diceva Bersani, forse non il migliore stratega della sinistra ma indubbiamente uno degli ultimi della sua parte ad avere un senso dell’orientamento ancorato alla realtà e i piedi per terra. Il senso della realtà, e delle parole, dovrebbe bastare per accorgersi di un’altra ovvietà: dove finisce il merito, c’è il demerito. O, declinazione meno morale e più socioeconomica: l’opposto del merito è il privilegio. Il perduto senso del reale, sostituito da una ideologia nominalistica, ha invece prodotto il ribaltamento dei fatti: si pretende di considerare il merito un privilegio, col risultato di favorire il suo contrario. 

 

Il contrario del merito è il privilegio. Concita De Gregorio: “E’ l’antidoto alla regola della natura per cui se nasci povero resti povero”

  
Colpa della lunga e disperante stagione dell’uno vale uno, dell’incompetenza al potere rivendicata come merito. La stagione che voleva abbattere non tanto le élite, ma la competenza (“questo lo dice lei”, la sventurata rispose). Ma non è solo questo. Si arriva ad affermare, persino dalla famosa “accademia”, che nella vita i risultati e le posizioni migliori si ottengono per privilegio, mentre il merito è un inganno per i poveri e i poco furbi. Ma questo è Genny Savastano, altro che sinistra. Un assurdo che ha lasciato basita una giornalista tutt’altro che di destra come Concita De Gregorio: “Non mi faccio una ragione che la sinistra si debba opporre al merito. Ma veramente dite?”, ha scritto su Repubblica. “Ragazzi, davvero. Ragioniamo. Per quale ragione al mondo il merito dovrebbe essere un demerito, per quale obliquo tragitto dire che bisogna dare opportunità a chi sa fare meglio le cose dovrebbe essere in contraddizione con l’evidenza che tutti devono avere la possibilità di dimostrare quel che possono fare, dunque, farlo?”. Il merito, dice De Gregorio con la palmare evidenza di chi non è obnubilato da confusi retropensieri, “è l’antidoto alla regola della natura – di classismo sociale – per cui se nasci povero resti povero”. L’onda montante della sinistra populista-nominalista va però in un’altra direzione. Basta sfogliare i social – che non sono lo specchio della verità, ma sono la schiuma della bolgia sociale – per imbattersi in frasi come questa: “Il merito è un’invenzione dei ricchi per giustificare il loro privilegio”. Ne discendono le farneticazioni, che farebbero rivoltare nella tomba Di Vittorio, di un capopopolo sindacale come Landini: “La parola merito rischia di essere schiaffo in faccia per chi parte da una condizione di diseguaglianza”. Ma c’è qualcosa di concettualmente più intorcinato e che viene da più lontano.


Nota praevia. L’idea del governo di Giorgia Meloni di infilare la parolina magica nel nuovo titolo di un dicastero, “ministero dell’Istruzione e Merito”, è un’altra stupidaggine nominalista, il pensiero magico per cui basta cambiare i nomi per cambiare le cose. Il neo ministro Giuseppe Valditara, se davvero ci vorrà provare, come primo mattone del merito dovrebbe riformare dalle fondamenta il sistema di selezione e retribuzione dei docenti: vasto programma, scoprirà che i primi veri avversari del merito sono i docenti, nella maggioranza indisponibili a farsi valutare (vade retro Invalsi) e desiderosi di mantenere il “riconoscimento dell’anzianità di servizio quale elemento fondamentale della carriera dei docenti”. Ma nel catalogo elettorale del centrodestra non c’era nulla in materia, tranne “rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”. Il niente. La faccenda insomma andrebbe presa sul ridere dall’opposizione (che invece preferisce prendere sul ridere la sovranità alimentare, peccato che quella sia un’idea di Carlin Petrini). Invece è esplosa la tifoseria a favore del demerito, dunque del mantenimento del privilegio e dello status quo, in un paese di per sé non dinamicissimo e nemmeno equo. Qualcosa deve essere andato davvero storto.


Nota di disambiguazione. Poiché la panna s’è montata a partire dal nuovo nome per il ministero della scuola, e poiché il tema della “meritocrazia” (ricordarsi di aggiungere “tossica”, altrimenti siete peggio dei colonialisti) vive soprattutto in ambito accademico (vedremo), la parola “merito” è automaticamente associata all’istruzione, privilegiata o no. Ma il merito non dovrebbe riguardare soltanto questo, tanto più in un paese bloccato verso il basso come l’Italia. Dovrebbe essere un benchmark per il mercato del lavoro, per i meccanismi contrattuali e di carriera rigidi persino nel settore privato. Anche se sono soprattutto le pubbliche amministrazioni a livellare al basso, con la scusa egualitaria, il rendimento professionale e di conseguenza a bloccare la scala (ascensore?) delle retribuzioni. Verrebbe da dire che i migliori esempi di meritocrazia di un sistema sociale fermo sono stati per decenni gli artigiani, i piccoli e medi imprenditori. La ricchezza e il cambiamento dell’Italia sono stati prodotti da persone che hanno puntato tutto sul proprio talento individuale e sul desiderio di riscatto sociale. Il merito è tossico? Davvero?

  

Un dibattito condizionato da studi anglosassoni come “La tirannia del merito”, ma la situazione del nostro paese è paradossalmente opposta

  
Tornando alla politica. La facile punzecchiatura di Matteo Renzi a Simona Malpezzi nel dibattito in Senato, “lei che sul merito era una pasdaran all’epoca della Buona scuola” – la senatrice si rammaricò che nella riforma non fosse introdotta la valutazione degli insegnanti – svela che la nuova posizione anti merito della sinistra è frutto di una retorica demagogica e strumentale. Certo, pesa il background di un elettorato sindacalizzato che non ha interesse ad aprire il vaso di Pandora delle rendite di posizione, e di una sinistra che ha fatto della questione sociale una mera questione di diritti nominali. Certo, pesa l’onda (l’onta) lunghissima dell’odio per le competenze. Giuseppe Conte alla Camera si è spencolato in una paralogia delle sue, “la vostra concezione della meritocrazia finisce per premiare i soliti noti, a partire dalla classe politica”. Che detta da un ex premier privo del minimo curriculum politico, scelto come capo di governo attraverso nessuna selezione, ma attraverso un’arte combinatoria extra parlamentare tutt’ora indecifrabile, può essere interpretata come una clamorosa gaffe. L’uno vale uno, la demonizzazione del merito sono i veri produttori di privilegio. Ma la questione è più ampia. La guerra al merito, che nei casi migliori vorrebbe essere alla meritocrazia, ha immesso nel discorso pubblico veleni come “il merito tossico”. Alla base c’è una riflessione sociologica, economica e politica tipica di alcune correnti di pensiero accademico soprattutto anglosassone. Obbligo citare quello che ormai è un classico in materia, il saggio del 2020 La tirannia del merito del filosofo e docente di Harvard Michael J. Sandel. Rifacendosi al comunitarismo, Sandel costruisce una critica radicale del concetto stesso di merito, che affonda (o affonderebbe) le sue radici nel calvinismo-capitalismo. “Il merito è diventato tossico perché una meritocrazia guidata dal mercato incoraggia chi emerge a considerare il proprio successo come misura del proprio merito”. Il che, da Leonardo del Vecchio a Kylian Mbappé, non sembrerebbe poi un’eresia; ma Sandel argomenta, ovviamente con ragioni, che sono gli ambienti familiari e sociali favorevoli a moltiplicare le possibilità di successo, precludendole a chi ha una situazione di partenza svantaggiata.

 

La risposta dovrebbe essere quella di provare a rendere meno invalidanti gli svantaggi iniziali – del resto è stata, sull’educazione, la scommessa di  riforme come il “No child left behind act” di George W. Bush o la “Race to the top” di Barack Obama. Perché invece criminalizzare il merito in sé? La risposta, forse, è che l’obiettivo del filosofo è più ampiamente politico: dimostrare che è l’intero sistema da condannare, e accusare la “arroganza meritocratica” delle élite della sinistra americana (i Clinton, Obama), che ha favorito di fatto il blocco liberista conservatore: “Dietro all’idea del merito si nasconde un inganno”. I critici più avveduti rimandano invece al creatore del termine “meritocracy”, il sociologo inglese Michael Young, che la usò in un saggio travestito da romanzo distopico, The rise of the meritocracy, nel 1958: quando da noi non era ancora partita la rivoluzione industriale, e in Inghilterra la rivoluzione sociale dei Sixties era di là da venire. Nello schema-previsione di Young, l’evoluzione della società capitalista classista porterà a premiare sempre più i capaci e chi ha “meriti”, dal sistema di istruzione in su, escludendo gli altri. Una discriminazione immorale e alla fine controproducente. Non è difficile notare che nel dibattito e nelle polemiche italiane di oggi  ciò che fa maggiormente breccia sono queste posizioni politiche radicali. La cui valenza nel panorama anglosassone andrebbe però ricalibrata per quello italiano. Sarebbe tutto giusto, se in Italia l’accesso a una buona istruzione o a carriere soddisfacenti fosse davvero bloccato dal privilegio di chi per censo o rete sociale può escludere gli altri, accampando un falso merito. L’Italia ha una situazione ampiamente inversa, è chi avrebbe il merito che spesso non trova gli accessi adeguati. E’ il merito a essere tossico? Bisogna decidere se la meritocrazia abbia un valore – se garantisce borse di studio, o avanzamenti nel lavoro – o se sia una forma di potere classista esercitato per escludere. La sociologa di sinistra radicale Francesca Coin, molto attiva sui social, ha scritto: “Da anni ampia bibliografia mostra come #merito produce iniquità”. Ovviamente non tutta la bibliografia, ed è soprattutto quella di area anglosassone. Dove l’accesso a università di prestigio è proibitivo per i non abbienti, e questo crea, generazione dopo generazione, un ambiente sociale che si riproduce da solo: a partire dalla grande scrematura del tracking system scolastico, che smista dall’inizio gli studenti in base a presunte abilità che sono quasi sempre il calco della loro situazione sociale di partenza. L’Italia, invece, soffre di una patologia inversa: si fa credere che la scuola sia uguale per tutti, e i docenti tutti uguali. Ma tra un super liceo del centro e un onnicomprensivo di periferia c’è l’abisso di un egualitarismo solo formale, e non di una inesistente meritocrazia.

  

La Normale di Pisa, il Collegio Ghislieri di Pavia, l’enorme lavoro politico di Di Vittorio (altro che Landini). Tre declinazioni del merito

  
Si possono fare degli esempi, persino banali, per spiegare cosa sia il merito ben declinato. La Scuola Normale Superiore di Pisa, grande lascito napoleonico all’eccellenza del nostro sistema di studi, sul suo sito online, nelle indicazioni per gli aspiranti studenti, spiega dalle prime righe: “Rimanendo fedele a questi valori, nel corso della storia ha ridefinito così la propria missione: grande selezione iniziale, severe richieste di performance accademica, lo studio inteso non come atto formale ma come spirito critico, la formazione alla ricerca come disciplina e come metodo”. Test di ammissione  proverbialmente difficili (non contano i curricula), standard di studio improntati a un’implacabile idea di merito. Lo scorso anno alcune neo diplomate andarono alla carica: “Il sistema accademico segue la logica del profitto con precarietà crescente senza parità di genere. La retorica del merito crea concorrenza malsana”. Peccato che senza la malsana concorrenza del merito, agli apici degli studi e della ricerca arriverebbero, e qui si parla di livelli internazionali, solo i privilegiati che possono permettersi le tasse della Ivy League. 


Una magnifica eccellenza italiana è il Collegio Ghislieri di Pavia, fondato nel 1567 e ancora oggi nella dizione ufficiale “Collegio di Merito”. Vi si accede con un esame d’ammissione selettivo. La particolarità che lo distingue da secoli è che, una volta ammessi, i meritevoli-agiati pagano la retta (comprensiva di posto nel collegio) mentre chi non è economicamente in grado di far fronte è ammesso a studiare e risiedere gratuitamente. La discriminante per proseguire gli studi è meritocratica in entrambi i casi: bisogna mantenere la media del 27. Tra i ghisleriani di ieri si possono citare Goldoni o Giuseppe Zanardelli; tra gli alunni a noi più vicini Gian Arturo Ferrari, il matematico Alfio Quarteroni, l’italianista Gianfranco Contini, economisti come Francesco Forte. Tutti tossici sfruttatori del merito. Tutte istituzioni dominate dalle élite che hanno permesso a molti di aprirsi una strada che il censo, e un falso egualitarismo, avrebbero precluso.


Il neo deputato Aboubakar Soumahoro (en passant: finalmente la sinistra ha trovato un oratore energico e concreto, niente Phd in filatelia comparata del colonialismo), mentre l’opposizione si incartava sulle desinenze antifasciste, ha citato nel suo intervento in Aula il grande sindacalista Giuseppe Di Vittorio: “Un cafone in quest’Aula disse che la fame, la fatica e il sudore non hanno colore”. Di Vittorio, nato cafone e costretto ad abbandonare la scuola per i campi e poi la prigione, era un uomo che le ragioni del merito, e della necessità di perseguirlo proprio per cambiare le condizioni delle classi povere e sfruttate, le aveva ben chiare. Disse in un famoso discorso del 1953, mentre in Inghilterra Young rimuginava sui disastri futuri della meritocrazia, che si sentiva rappresentante “delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana”. Si riteneva “un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi” e sapeva quanto sono “grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne”. Di Vittorio si batteva per una società che consentisse ai poveri di studiare per emanciparsi. Certo attraverso condizioni più eque, ma anche attraverso la ricerca di quello che si chiama merito.


Di fronte alle parole di Landini, Di Vittorio avrebbe molto da ridire, e probabilmente giudicherebbe le posizioni di molta sinistra intellettuale come un vero tradimento dei chierici. Chierici laici e chierici religiosi, va aggiunto. E’ stata più volte citata, in questi giorni, una presunta condanna del merito pronunciata da Papa Francesco, “la meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza”. Lo disse a Genova, terra di lavoro operaio, nel 2017. In realtà la frase era preceduta da un’altra, senza cui non si comprende: “La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte”. Non pervertire il concetto di merito  è diverso dal negarlo, e non potrebbe essere diversamente per un Papa figlio del cardinal Bellarmino e di generazioni di padri-studiosi-insegnati che dell’eccellenza culturale, perfino elitaria, hanno fatto la storia. Forse dovrebbero rifletterci anche certi intellò cattolici, così corrivi con le visioni populiste che tanto vanno di moda. Come l’economista dell’economia circolare Luigino Bruni, consigliere del Papa, che non ha nemmeno atteso l’annuncio del governo per twittare: “Trovo gravissimo cambiare il nome del ministero dell’Istruzione e del merito: la scuola è il luogo dove la meritocrazia produce i suoi effetti più perversi”. Basterebbe rileggere la Parabola dei talenti, lezione sul merito di un Tale che un pensiero economico ce l’aveva eccome. O chiedere un parere a Papa san Pio V, fondatore del collegio gratuito per i meritevoli che ancora porta il suo cognome, Ghislieri, e che ancora si regge in buona parte sui suoi cospicui lasciti (era un privilegiato? Sì).

  

Un grande equivoco che si sta mangiando anche temi importanti. La sinistra non elabora più idee innovative dai tempi dei “Meriti e bisogni” del Psi

  
C’è un grande equivoco attorno alla questione del merito, che si sta mangiando anche una serie di temi oggettivamente gravi, e in via di peggioramento: l’uguaglianza economica, l’integrazione, il miglioramento della condizione sociale. Sarebbero i problemi su cui incalzare il nuovo governo, anziché armare crociate contro la tossicità del merito. Del resto l’ultima volta che la sinistra in Italia ha pensato qualcosa di serio e innovativo in materia fu quarant’anni fa, la Conferenza programmatica socialista del 1982. Quando Claudio Martelli lanciò quell’ambizioso progetto politico di uscita da una visione classista della società, che già da tempo non reggeva, con il titolo “Meriti e bisogni”. L’idea di lasciarsi alle spalle “la pietrificata sociologia marxista” (che oggi è una incupita sociologia anti capitalista) per dare vita a “un’alleanza riformatrice tra “coloro che possono agire” mettendo a frutto i propri talenti e “coloro che devono agire” per uscire dall’emarginazione. Il riferimento culturale non era il marxismo, non era il comunitarismo, non la dottrina sociale della chiesa. C’era molto liberalismo egualitario americano e la tradizione del socialismo riformista. Da allora la sinistra anche intellettuale italiana ha preferito farsi trascinare in una sorta di radicalismo sempre più staccato dalla percezione dei bisogni e dei meriti reali. In cui prevale non la ricerca di strade per migliorare, ma la voglia di punire chi per motivi oggettivi, innegabili ma non cancellabili, parte da posizioni migliori. Ha scritto su Twitter un giovane studioso, Luca Picotti, e non si potrebbe dire meglio: “Comprendo in parte le analisi degli amici di sinistra sul merito: il ruolo del sostrato sociale-culturale-familiare è innegabile. Mi chiedo però, una volta abbattuto il concetto di merito, cosa rimanga. Oltre a negare i ‘meriti’ a chi parte privilegiato, restano spazi vuoti”. Come direbbe Concita De Gregorio: “Ma veramente dite?”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"