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Il surreale dibattito tutto e solo italiano sulla misurabilità del merito

Antonio Gurrado

Continuiamo a guardare il dito e non l’asteroide che ci sta piombando addosso. L’Italia è ultima fra dodici nazioni europee nel Meritometro, il report che dal 2015 viene diramato dal Forum della meritocrazia. Una notizia che può sorprendere solo abilissimi fingitori

Si può misurare il merito? Un comune denominatore del dibattito sul cambio di nome del ministero dell’Istruzione è di darne una lettura impregnata di suggestioni astruse se non di psicologismi. Rileggendo gli interventi al riguardo, si nota in quelli critici un utilizzo confuso della parola “merito” come afferente al campo semantico di “selezione”, “privilegio”, “classismo” tout court.

 Allo stesso modo, i fautori tendono a darle l’accezione di “giustizia”, “premio” o “ascensore sociale”. Il termine si è fatto ambiguo e il dibattito si fonda sull’incomunicabilità fra interpretazioni opposte; urge uno sforzo definitorio per analizzare la questione sotto una lente oggettiva, univoca. E chiedersi dunque se si possa misurare il merito. A questa luce vanno letti i dati del Meritometro, report che dal 2015 viene diramato dal Forum della meritocrazia e la cui nuova edizione è stata presentata a Milano. Che l’Italia sia ultima fra dodici nazioni in questa comparazione del merito a livello europeo può sorprendere solo abilissimi fingitori: non solo è da sempre saldamente in coda alla classifica (l’ostilità al merito è un’eccellenza italiana) ma basta l’osservazione empirica per notare che ben pochi studenti e professionisti stranieri si trasferiscono qui con la fondata speranza di dimostrare quanto valgono. I dati dicono che il coefficiente di merito dell’Italia si assesta su un 25,48, una decina di punti dietro Polonia e Spagna, una ventina abbondante dietro Gran Bretagna e Austria, a distanza siderale dalla Scandinavia terra promessa del merito, che occupa il podio con Finlandia, Svezia e Norvegia davanti alla Danimarca.

Che facciamo? Ci trasferiamo tutti a Tampere? Festeggiamo perché siamo migliorati rispetto al 23,34 della prima rilevazione? Lamentiamo che il Meritometro è “una bufala politica”, come pavlovianamente sostenuto dal Fatto alla diffusione del primo rapporto, e che i problemi dell’Italia sono ben altri? Estraiamo dalla manica la solfa della meritocrazia come termine nato in un contesto distopico e foriero di un futuro di spietatezza nei confronti dei più deboli? Meglio notare due caratteristiche del Meritometro che magari fanno meno notizia ma che sono molto istruttive. Anzitutto, il rapporto si apre segnalando che manca un criterio univoco di misurazione del merito, quindi deduco possiamo tranquillizzarci perché non ci aspetta nessuna prospettiva di valutazione personale alla “Black Mirror”. Per stilare la classifica, il Forum della meritocrazia scompone il merito in sette pilastri o meglio valori su cui siamo invece tutti d’accordo: libertà (politica, sociale, economica), pari opportunità (per le donne ma anche per i giovani), qualità dell’istruzione, attrattiva per i talenti, chiarezza delle regole, trasparenza nell’amministrazione, mobilità sociale. Anche chi al solo sentire l’iniziale di “merito” ha la bava alla bocca concorda sull’evenienza che un maggior peso di questi valori contribuisca al progresso collettivo.

La seconda caratteristica è che, contrariamente alla fumosa tendenza a giudicare il merito in base a speranze o fobie, il Meritometro utilizza per ciascuno di questi valori uno o più indicatori di riconosciuta autorevolezza: dall’Index of Economic Freedom del Wall Street Journal al Glass Ceiling Index dell’Economist, dal Rule of Law Index del World Justice Project ai risultati dei test Pisa Ocse, che tante soddisfazioni hanno donato a chi sogna una scuola da cui i giovani italiani escano senza saper né leggere né scrivere né far di conto. Forse, chissà, il merito non si può o non si deve misurare. Ma se da osservatori internazionali poco interessati a diatribe sulla carta intestata dei ministeri emerge che siamo malconci nell’istruzione e nella trasparenza, se la combinazione di fattori chiave che possono anche non chiamarsi “merito” rivela che siamo messi peggio della Polonia, allora indignarsi per una paroletta fraintesa significa continuare a guardare il dito anziché l’asteroide che ci sta piombando addosso.

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