in uganda
I cento anni di don Giussani nel volto di Rose, l'infermiera che dona speranza oltre l'Aids
La storia di Rose Busingye, Memor Domini a Kampala che “rende libere” le donne malate e a tutti fa scoprire il valore di dire “io so chi sono”. Sabato prossimo, 15 ottobre, sarà il centenario della nascita del fondatore di Cl. Migliaia di ciellini quella mattina saranno in piazza San Pietro
Le donne: quasi un corteo allegro e danzante, così irreale nei vicoli melmosi dello slum di Kireka. Avanzano, ridono, chiacchierano (“Che allegria c’è? Cos’hanno di bello tutti costoro?”, cit.). Donne che qui sono a casa loro, non è certo la povertà intorno a determinare i loro sguardi, la loro forza. “Le guardi e ci parli, ci stai assieme per ore. Ma quando hai scremato gli aggettivi uno alla volta, ne rimane solo uno che sembra adatto a quello che stai vedendo: felici”. E sarebbe ancora nulla, la miseria della periferia di Kampala, se non fosse che quelle donne – o la maggior parte di loro – erano come morte, abbandonate, fatte a pezzi letteralmente. Malate di Aids, rapite stuprate e infettate dai ribelli durante la guerra, ridotte a schiave nel bush e poi buttate via anche dalle proprie famiglie, inutili, reiette. Sono le stesse che ora vanno insieme al lavoro, un lavoro duro: spaccano pietre in una cava. Ma sono rinate, sono vive: “Now I’m free”, cantano, e ognuna aggiunge la strofa della propria storia. Hanno persino raccolto soldi da mandare all’Ucraina: “Sono le nostre lacrime per chiedere a Dio che si prenda cura del popolo ucraino”. A Naragu, altro nome per designare slum tutti uguali, fanno persino aerobica. Ridono, scherzano. Il virus o le violenze subite non le hanno spezzate. E’ una storia dell’altro mondo, ma in questo mondo.
In mezzo a loro cammina una donna non alta, ha gli occhi che brillano sotto un cappello da baseball, la t-shirt; la chiamano “muzungu”, “bianca”, per sfotterla, perché ha la pelle appena più chiara delle altre. Sta nel mezzo, non sembra una leader. Si chiama Rose, Rose Busingye. Ma per tutti è Rose e basta; adesso ha cinquantaquattro anni, è infermiera ed è responsabile del Meeting Point International di Kampala: una struttura che accoglie, assiste, si prende cura di malati soprattutto di Aids (il Covid qui “è solo un altro dei nostri virus”, ridono le donne) ed è il motore molto mobile di tutta la vita fiorita attorno. Ma era una ragazza timida quando tutto è cominciato. Eppure, senza di lei quello che c’è adesso a Kampala, in Uganda, non ci sarebbe. E’ avvenuto attraverso lei.
“Le guardi e ci parli, ci stai assieme per ore. Ma quando hai scremato tutti gli aggettivi, ne rimane solo uno adatto a quello che stai vedendo: felici”
Sabato prossimo, 15 ottobre, sarà il centenario della nascita di don Luigi Giussani, il sacerdote ambrosiano che ha suscitato il movimento di Comunione e Liberazione. Migliaia di ciellini quella mattina saranno in piazza San Pietro, per l’udienza che Papa Francesco ha loro concesso. Ci sarà anche Rose, in persona oppure no, ancora non si sa. Ma ci sarà. Ci sarà la sua appartenenza a quella storia e ci sarà il suo grande cuore, che è tutt’uno con il cuore del Gius, lo è sempre stato. In una predilezione intensa che è nient’altro, e in fondo semplicemente, che la stoffa di cui è fatto il cristianesimo: “Il cuore batte forte, perché è come se non ci fosse separazione”, ha detto Rose a Davide Perillo, giornalista a lungo direttore del mensile di Cl, Tracce, che ne ha raccontato la storia in un libro pieno di realtà e di commozione, I vostri nomi sono scritti nel cielo - Nel mondo di Rose Busingye (Bur Rizzoli), di cui questo articolo è solo un invito alla lettura. “Non è idolatria, ci mancherebbe: per me non è mai stato un idolo e non ho mai avuto il mito del ‘capo’. E lui, se gli avessi detto ‘don Gius, sei Gesù per me’, mi avrebbe rincorso per prendermi a calci nel sedere”. Il cristianesimo è una storia semplice, di incontri personali che cambiano la vita e che non sono i progetti umani, e nemmeno ecclesiali, a determinare. Come la storia di Rose. Che in verità non è così semplice, nel significato banale che diamo alla parola. E’ stata piena anche di dolore, di contraddizione, persino di morte. Ma è una storia che meglio di tante parole spiega tutto, anche per i molti osservatori che il prossimo sabato guarderanno verso San Pietro, ognuno con le proprie domande.
La famiglia di Rose Busingye è di origine ruandese, sono Tutsi e si erano spostati in Uganda negli anni Settanta, al riparo dalle violenze etniche che già si profilavano. Né poveri né ricchi. Cattolici, una fede profonda, lo dicono i nomi dei suoi fratelli e della sorella maggiori: Francesco Saverio, Emanuel e Goretti. Rose nasce nel 1968, in un paese che vive le doglie della decolonizzazione. In quella famiglia molto religiosa cresce tranquilla, timida, “non ho mai pensato che Dio non esistesse: però non era roba per me”. Finché non incontra padre Tiboni, una grande storia dentro una storia che iniziava. Padre Pietro Tiboni, missionario comboniano, un brillante futuro da teologo davanti, aveva scelto invece la missione in Africa già nel 1957. Qualche anno dopo aveva incontrato un gruppetto di giovani italiani, arrivati per progetti di volontariato. Sono di Comunione e Liberazione, il movimento stava ricominciando proprio in quegli anni dopo una drammatica crisi interna, e mentre nei paesi ricchi i loro compagni si preparavano alla rivoluzione delle parole e della violenza, loro ripartivano con la stessa forza missionaria che nei primi anni Sessanta aveva portato i primi giessini, poco più che studenti, in Brasile. Tiboni è incuriosito dalla loro vita, è lui a seguirli. Nel 1971 Giussani arriva in Uganda, si incontrano, una sintonia totale. Sono gli anni terribili di Idi Amin Dada, Tiboni deve rientrare in Italia. Ma quando tornerà, nel 1981, farà nascere Christ Communion and life, CCL – la parola “liberazione” avrebbe insospettito le autorità – un movimento che viveva integralmente l’esperienza e il metodo di Cl. Se c’è una cosa che spiega più di mille teorie cosa vivesse nel cuore di don Giussani è proprio l’incontro con padre Tiboni: soltanto una “urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo”, in ogni parte del mondo, implicandosi con tutti. La proposta di CCL coinvolge tanti giovani, in un paese sconvolto dalle violenze.
Sabato 15 ottobre, centenario della nascita di don Luigi Giussani, i ciellini saranno in piazza San Pietro, per l’udienza con Papa Francesco
E’ la storia di Francis Bakanibona, vent’anni, che Giussani definirà “il nostro primo martire”. Aveva incontrato i ragazzi di CCL solo da tre mesi, fu ucciso a botte del 1982 dai soldati del dittatore Obote che lo accusavano di aiutare i ribelli di Museveni. E c’è Simon, caporeparto in un’azienda: un suo compagno gli aveva offerto cinquemila scellini “per la tua medicina segreta, perché vedo che qui con te la gente lavora meglio, è contenta e io voglio sapere che cosa gli dai”. Rose è una di loro, con una radicalità impressionante per la sua età. Aprile 1984, un incontro di universitari a Milano. Giussani chiede il permesso di leggere “come esempio della cosa più divina che Cristo abbia portato sulla terra, una lettera che mi sono fatto proposito di leggere ovunque”. E’ una lettera a un’amica di Rose Busingye, che allora aveva sedici anni: “Sentite cosa scrive, dopo alcuni mesi che aveva incontrato un certo movimento in Uganda, era come rinata”. Rinascere, vivere su di sé “la cosa più divina che Cristo abbia portato sulla terra” è questo racconto: “Queste vacanze sono andata a casa, perché mi scrissero che mia sorella era stata uccisa dal marito: egli voleva sposare una ragazzina protestate e dicevano, allora, che i cattolici sono guerriglieri, e così hanno ucciso mia sorella in casa, l’hanno tagliata a colpi di zappa”. Rose ha paura, “ma pregai con autorità, attraverso Maria, per poter superare e vincere tutto ciò”. Arriva a casa, e per prima cosa dice a sua mamma, che pure era una donna di fede: “Perché non cominci ad amare subito? Dio esiste, Dio ci ama, noi dobbiamo comunicare questo amore agli altri… prega per quelli che odiano e ama ciascuno di loro”. La gente “era strana, piena di odio”, scrive Rose, eppure “trovava che io avevo il cuore preso dal perdono”. Come ai tempi di Gesù, non tutti coloro che si stupiscono vanno dietro alla persona che ha generato quello stupore. Ma sua mamma, almeno lei sì.
E’ attraverso padre Tiboni che si imbatte nelle parole di don Giussani: “Il Mistero si è fatto carne”. Anche per lei, come molti anni prima per il Gius, è “il bel giorno” della scoperta fondamentale della vita. E scopre che in quel movimento di cui in Uganda ha conosciuto alcuni è sorta una associazione che si chiama Memores Domini, laici che “mettono in comune i beni, praticano la castità e vivono l’obbedienza ma non portano abiti religiosi e non emettono voti”. Vivono del loro lavoro e totalmente immersi nel mondo. Rose non è ancora adulta, dovrà aspettare almeno la fine degli studi prima di venire in Italia, nel 1990. Il primo incontro è in ascensore, in un albergo di Corvara, durante un raduno internazionale. “In corridoio vedo uno che diceva il rosario camminando avanti e indietro. Non sapevo nemmeno che faccia avesse don Giussani. ‘Ma tu sei la Rose?’, ‘Ma sei don Giussani?’. Mi ha abbracciato. Ho fatto tutta la vacanza senza neanche sentire cosa veniva detto: avevo in mente solo quello sguardo e quell’abbraccio”. Fare la “professione” per entrare fra i Memores è, giustamente, un percorso lungo, una verifica di anni. Invece passano pochi giorni, Giussani la chiama: “Sono tutti d’accordo che tu faccia la professione”. “Ma sai quanti anni ho?”. “Non importa, anche se avessi avuto cinque anni te l’avrei fatta fare lo stesso”. Vuoi bene a Gesù? Sì. Vuoi dare la vita per lui? No. “E’ rimasto un po’ scosso”, ricorda Rose: “E io: ‘Non ho niente nella vita da dare a Gesù”. Giussani diede un pugno sul tavolo, come sempre quando qualcosa di cruciale lo entusiasmava: “Dillo a tutti, sempre! Perché tutti pensano di dare qualcosa di importante a Gesù e così, per tutta a vita, è come se aspettassero la ricompensa. Invece è Lui che prende il nostro niente e lo salva”.
Resterà in Italia un paio d’anni, studia infermieristica a Varese. Specializzazione in malattie infettive. In tempo per incontrare per la prima volta l’Aids. Per tornare in Uganda quando ormai l’Aids è ovunque. Nel primo anno di statistiche disponibili, il 1990, secondo UnAids il 10 per cento della popolazione è infettato. Le donne malate 440 mila, i bambini 3 mila, 50 mila i morti. Le cose nel paese miglioreranno lentamente, ma in quegli anni la tragedia è in ogni casa, è gettata a terra in ogni vicolo.
Primo incontro. “‘Ma tu sei la Rose?’, ‘Ma sei don Giussani?’. Mi ha abbracciato. Avevo in mente solo quello sguardo e quell’abbraccio”
Così Rose capisce che aspettare in ospedale tutti quelli che non ci possono venire, le donne soprattutto, è inutile. Inizia a girare gli slum, porta medicine, inizia a fare counseling per i malati e gli infettati. E’ nato così il Meeting Point International, con l’aiuto degli operatori della ong Avsi, da sempre una presenza stabile nel paese. Ma non sono solo tecnica e medicine, quello che inizia ad accadere, attraverso e attorno a Rose, cambia tutto. “Portavamo le medicine ai malati, impostavo la terapia. Ma il giorno dopo tornavi lì e le medicine erano buttate nella spazzatura. Eppure sapevano a cosa servivano. Ma come?”. Fu allora che iniziò a capire che “quello che pensavo bastasse, non bastava”. Le donne stuprate e infettate di Aids che Rose comincerà a incontrare, i bambini orfani e abbandonati, che oggi vengono accolti alla Welcoming House di Kampala, gli uomini in fin di vita abbandonati nel fango delle baracche hanno bisogno di altro, di qualcosa che viene prima: di sentirsi amati, ma ancor più di rispondere alla domanda: “Chi sono io?”. “Solo quando quelle persone, “esattamente don Giussani ha fatto con me, scoprono il proprio valore, e scoprono per la prima volta un amore per sé stessi, che la vita ha un senso, allora si fanno curare, cominciano a vivere”, racconta. Così “ho capito cosa non andava nelle donne, non avevano capito il loro valore personale”.
A meta degli anni 90 Rose passa sei mesi a Milano, assieme a Giussani. C’è una crisi profonda da cui uscire, lei pensava di parlare molto di “cosa fare” a Kampala. Lui invece le chiedeva sempre: “Come stai, tu?”. Le parlava di sé, della sua vita, di mille cose. Passeggiavano, mangiavano insieme. Una predilezione, come quella di Gesù per Giovanni, o quando prendeva lui e Pietro e Giacomo e li portava con sé, via dalla pazza folla che chiedeva regole o miracoli. “Non parlava neanche tanto di Dio. Ma ero così contenta di essere lì, che non sarei mai andata via”. “E’ un modo di fare che attrae, entra e diventa te. Non ‘perché lo dice Giussani’, no, lo vedevi e aveva un fascino, un gusto delle cose, che ti trascinava. Lo volevi per te”. Il cristianesimo si comunica da persona a persona, fosse l’ultimo malato dello slum. E’ un avvenimento di vita, cioè una storia.
C’è un versetto del Salmo 8 che Giussani non si stancava di ripetere: “Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi / il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Quando ritorna a Kampala è cambiata lei, e sarebbe rinato il resto. Il Meeting Point International, la Welcoming House, e ben due due scuole – elementari e superiori – che portano il nome di don Giussani. Perché le scuole? Non per un progetto educativo a tavolino. Quando Rose propose alle sue donne di fare un ospedale, o un centro accoglienza più grande, risposero senza indugio: “No. Quello che serve è una scuola per i nostri figli”.
Ora Rose Busingye non è più una ragazza timida di 16 anni, le opere che sono nate da lei e dai suoi amici, dai collaboratori, ora una trentina, dalle persone che sono state accolte e salvate e poi hanno fatto altrettanto, sono conosciute. Sono studiate come modelli di intervento educativo, sanitario e sociale in molte parti del mondo. Le conosce anche Spike Lee, che nel 2008 premiò a Cannes il documentario realizzato da Immanuel Exitu, Greater - sconfiggere l’Aids, che già l’anno precedente aveva vinto il New York Aids Film Festival. Ha parlato a congressi della Chiesa e davanti al Papa, in tanti l’hanno incontrata al Meeting di Rimini.
“Quando le persone scoprono il proprio valore, e scoprono per la prima volta un amore per sé stessi, e che la vita ha un senso, allora si fanno curare”
Adesso che viene invitata a illustrare la sua esperienza in contesti prestigiosi, dice: “Lavorare e aiutare gli altri per me vuol dire favorire l’emergere con la maggior chiarezza possibile del valore della persona e offrire un’amicizia precisa, puntuale, cui appartenere”. Sta parlando di questa storia, che lasciamo raccontare in presa diretta a Davide Perillo: “C’è un canto che le donne eseguono sempre. Si intitola When I met Rose e lo hanno composto loro. E’ il racconto della loro vita. Il gruppo sta sullo fondo, cantando in coro. Due o tre, a turno, vengono davanti, a mettere in scena le parole della strofa: ‘When I was a window… When I was a street kid’. E loro a mimare una vedova, una donna senza dimora. ‘Since I set Rose, she brought my heart and saved me. Rose set me free’. E ridono e ballano mentre il canto va avanti dieci, quindici minuti sembra non fermarsi mai”.
L’ultima volta che don Giussani parlò ai suoi, un breve saluto in video a un raduno della Fraternità di Comunione e liberazione, nel 2002, il filo del suo pensiero fu l’episodio evangelico del funerale del figlio della vedova. Gesù che le dice: “Donna, non piangere!”. Solo un pazzo può dire “non piangere” a una vedova che ha perduto il suo unico figlio. Oppure è Dio che è divenuto compagnia alla vita degli uomini e delle donne: “Non piangere, perché non è per la morte, ma per la vita che ti ho fatto!”. In pochi minuti, il Gius ripeté e ripeté più volte quell’esortazione, quell’impossibile che diviene possibile. “Donna, non piangere!”. Le stesse parole di Rose alle sue donne di Kampala. C’è una frase della Liturgia ambrosiana che don Giussani amava molto, e piace senz’altro anche a lei. Recita: “Nella semplicità del mio cuore, lietamente Ti ho dato tutto”.