Meglio di un lieto fine

Piero Vietti

“Tutti noi qui siamo ammalati di Aids – racconta Veneranda – Molte di noi sono state lasciate sole, abbandonate dai figli, i mariti morti molto tempo fa, nessuna di noi aveva speranza in questo mondo"

Quando la portiera dell’auto grigia si chiude, Emmanuel pensa subito: “Be’ certo, siamo in Africa: gli africani cantano e ballano sempre…”. Circondato da decine di donne che indossano magliette gialle viene accompagnato a passi di danza e cori ritmati dalle mani fino al grande cortile. La festa continua. “Ma dove sono finito?” è il secondo pensiero di Emmanuel. La stessa domanda se l’era fatta qualche tempo prima Vicky, arrivando nel cortile dove ora c’è Emmanuel, le telecamere accese a riprendere quelle donne che ballano: “No, ho sbagliato posto. Questo è solo un club, questa gente non è malata”. Queste non sono le ammalate, si sta dicendo Emmanuel. “Tutti noi qui siamo ammalati di Aids – racconta Veneranda – Molte di noi sono state lasciate sole, abbandonate dai figli, i mariti morti molto tempo fa, nessuna di noi aveva speranza in questo mondo. Io aspettavo soltanto che venisse il mio giorno”.

 

Il cielo azzurro di Kampala fa da sfondo al viaggio in auto che Emmanuel Exitu fa con Rose. Al volante c’è lei, la destinazione è il Meeting Point International, dove insieme a un’altra ong, Avsi, Rose accoglie i malati di Aids che vivono nelle baracche della capitale ugandese. Emmanuel è lì per girare un film, con lui due cameramen e uno scultore. L’idea gli è nata con l’amico Daniele Mingucci, e si è concretizzata quando Arturo Alberti, presidente di Avsi, gli ha presentato Rose. “Cercavo la speranza, non il lieto fine”, dice il giovane regista di Bologna. Ha seguito tutti i corsi di cinema dei guru hollywoodiani che gli spiegavano come impacchettare un finale con buoni sentimenti, “ma avevo l’impressione che questo cancellasse tutto il carico tragico della storia, come se il dramma raccontato fin lì di colpo non ci fosse più”.

 

Invece per Emmanuel la speranza è un’altra cosa, “una strana fiamma che brucia dentro ogni contraddizione”. Sembra strano che per cercare la speranza uno debba andare in mezzo ai malati di Aids di Kampala. “L’Hiv è miseria”, pensava Vicky quel giorno al Meeting Point davanti alle donne che ballavano. “Le cose sono sempre di più di quello che tu immagini”, dice Rose guidando tra le strade appena fuori dalla capitale. A volte a raccontare si riducono le cose, “in questo mondo si parla troppo – sorride – bisognerebbe vedere”. Non dice “fare”, come direbbe il pensiero buono più o meno generalizzato oggi, Rose dice proprio “vedere”. E precisa: “Alla fine fare ti stanca. Invece vedere e commuoversi ti muove”. Rose Busingye fa l’infermiera, e passa la giornata a stare con le sue ragazze, bellissime e ammalate, che fanno le spaccapietre, lavorando a una cava per fare della ghiaia con cui guadagnare da vivere.

 

Rose indica con la mano: “Quella donna grassa che danzava, Aida, dicevano che non era malata. Le hanno voluto fare di nuovo il test dell’Hiv”. L’Uganda è uno dei paesi africani dove la lotta all’Aids è più avanzata, ben coordinata dal governo. Rose spiega però che nessuno credeva che le donne al Meeting Point avessero bisogno di cibo e medicine: “Vedono che le mie donne sono contente e piene di salute e dicono: ‘Non è vero che sono malate’. Allora hanno preso tutte quelle più grasse, gli hanno fatto il test e hanno visto che hanno l’Hiv. Si sono commossi, e hanno detto: ‘Poverine, dobbiamo fare qualcosa per aiutarle’. E mi hanno portato scatole di preservativi”. A quel punto però le ragazze di “mama Rose” si sono infuriate. Ma come, hanno detto, sto perdendo una persona che amo, mio marito sta morendo, mi lascia con sei figli e voi mi date un preservativo? “Serve qualcosa di più – spiega Rose – la vita non è solo il sesso”. Quando uno è infettato cosa deve prevenire? Ma soprattutto, a uno infettato non interessa più niente degli altri. Chi sono gli altri? Rose alle sue donne ha insegnato a rinascere così: “Se uno scopre che lui stesso ha un valore, scopre che anche l’altro ha un valore”. Normalmente un malato di Aids rifiuta le medicine, si lascia sprofondare lentamente, acchiappare dalla morte. Il Meeting Point è l’unico progetto in Uganda dove tutte le pazienti accettano le medicine. “La sconfitta dell’Hiv è questa: dire che la vita ha un valore; anche se mancano due giorni alla fine, dieci giorni, un anno… vale la pena viverli, perché hanno un motivo, una ragione”. Quando capiscono questo le ammalate cominciano a cantare, a curarsi la pettinatura, a vestirsi bene. “Anche se ci fosse un vaccino, se uno non sa il valore della vita, anche il vaccino sarebbe inutile”.

 

New York, aula magna dell’Università. Qualche mese dopo Emmanuel sta proiettando il film nato da questo viaggio, “Greater, defeating Aids”, all’Aids film festival delle Nazioni Unite. Quando Rose dice quella frase sul vaccino la sala è attraversata da un brusio di dissenso. Non è possibile, sembra dire quell’onda silenziosa nel buio dell’aula. Eppure quando sul palco del Babelgum online film festival il regista Spike Lee ha consegnato a Emmanuel il primo premio del concorso internazionale, la motivazione è stata proprio “perché offre una visione diversa delle persone con l’Hiv perché non le presenta come vittime […] Stiamo guardando la vita qui in un modo inconsueto rispetto alla mentalità corrente”. E’ raro sentire parlare di Aids in Africa senza dovere ascoltare prediche laiche sulla panacea dei preservativi, magari da lanciare dal cielo sul Continente. Spike Lee, abbracciando Emmanuel, gli ha detto: “Hai fatto un gran film. Continua così”. Ora Emmanuel gira l’Italia a far vedere “Greater”, ma non perché sia interessato ai progetti di cooperazione internazionale. Per far vedere a tutti la speranza che ha raccontato.

 

Vedere e commuoversi, dice Rose. “Greater” è un non-documentario, girato con la tecnica dei reportage di guerra. Il cortocircuito di raccontare una situazione non di guerra con questo linguaggio funziona: “E’ un linguaggio al servizio della realtà – dice Exitu – Non c’è nulla di preparato, le immagini a volte sono ‘sporche’, ma l’impatto con la realtà è fortissimo”. E poi quel tentativo di raccontare la speranza: “I documentari di denuncia sono una truffa, anche perché alla fine chi li gira non condivide la battaglia fino in fondo: è più preoccupato della denuncia da fare che del problema da risolvere”. Exitu fa un esempio: Kevin Carter vinse il Pulitzer per la foto di un bambino africano che sta morendo di fame con accanto un avvoltoio che ne aspetta la fine. Quando gli chiesero perché non avesse fatto qualcosa per quel bambino ma ne avesse atteso gli ultimi istanti per fare la foto, rispose che era più importante la denuncia, tanto per lui non c’era più niente da fare. “Io cerco chi non ha paura dello schifo e lo affronta”, dice Emmanuel.

 

Il papà di Regan era pazzo, viveva nella spazzatura, la madre lo ha abbandonato quando aveva una settimana. Quando la notte Regan piangeva, il padre gli dava benzina da respirare. Adesso è grande, ma la testa gli è rimasta da bambino, e non può andare a scuola. Nata prematura da una mamma sieropositiva, Lina pesava meno di un chilo. Subito dopo il parto sua madre è morta. Qualche tempo dopo Lina aveva un telefono che suonava a pochi centimetri dalla testa, ma non sentiva niente. Fatti tutti gli esami necessari, si è visto che non c’era niente da fare: sorda. Katia è stata abbandonata in un bar, e la polizia l’ha portata a Rose che aveva appena tre mesi. Ochan è rimasto orfano da piccolo. Affidato prima alla matrigna, veniva picchiato ogni giorno. Quando Rose l’ha trovato era malnutrito e pieno di ferite. Moses guarda le teleamere con due occhi enormi e la bocca spalancata. Rose lo ha trovato tra le braccia della mamma morta di Aids. Aveva sei mesi e faticava a respirare. Carras è stato messo dalla madre nella spazzatura con ancora il cordone ombelicale attaccato. Gli altri bambini adesso sono a scuola, le loro storie si assomigliano tutte, si rincorrono sul ciglio disastrato che divide il dramma dalla disperazione, la speranza dalla bestemmia per un destino infame. A vederli giocare lì, nella Welcoming house di Rose a Kampala, sembra di guardare da vicino un miracolo. Con Avsi Rose cerca chi li possa adottare a distanza, e grazie alle sue donne che non sembrano malate ne tira su ogni giorno di più. Non ha paura di perderli, Rose. Non li perde. Non perché li tenga con sé. Gli orfani dell’Aids crescono, studiano, e riprendono la loro vita. Uno di quei bambini adesso è diventato avvocato, e ogni tanto torna a far giocare quelli che sono come lui qualche anno prima. “Voglio che uno diventi se stesso, non che faccia quello che dico io”, dice Rose.

 

“Alla morte non ti abitui. No, non puoi: è una cosa che proprio non è nostra”. Il cielo si è fatto più scuro là fuori, e Rose continua a guidare. “Ogni volta che muore qualcuno è uno strappo. E sempre mi viene rabbia, mi chiedo: ‘Perché?’”. Fa una pausa. “Ma è una cosa a cui la scienza non può rispondere”. Rose ha visto di tutto nella sua vita: guerra, malattia, fame, ogni tipo di ingiustizia. “E lo so che tutto ha un senso. Che senso ha la morte, che senso ha la vita? Me lo dicono anche i miei pazienti: ‘Rose, la morte ha un senso; se no perché ci sarebbe?’. Se un bambino nasce con lo stomaco vuol dire che ci sarà da mangiare. La morte non può essere una sconfitta. Se esiste vuol dire che c’è qualcosa d’altro. C’è”.

 

New Orleans. Agosto 2005. L’uragano Katrina ha appena ucciso duemila persone e allagato l’intera città. Saputa la notizia, Rose chiama a raccolta le donne del Meeting Point che stanno andando a spaccare le pietre e chiede loro un momento di raccoglimento, di preghiera. Una però interrompe Rose: “Quando ci hai incontrate non ti sei messa solo a pregare. Io sto per morire e non voglio che chi incontrerà i miei figli si metta a pregare. Vogliamo anche noi imparare ad amare come ci hai amate tu”. In quattro settimane le donne di Naguro e Kireka, a Kampala, riempiono un camion di ghiaia, lo vendono e raccolgono i soldi da mandare ai senza casa di New Orleans. A Rose viene da piangere: “Io non sono come loro”, dice. Rose chiama l’ambasciata americana, che manda una persona a Kampala, un giornalista, che vedendo tutto ciò si scandalizza: “No – dice – è ingiusto che questa gente, che non ha niente, dia tutto quello che ha”.

 

Una donna bellissima, ammalata di Aids, racconta: “Quando abbiamo saputo del disastro abbiamo voluto fare qualcosa per loro, come Rose ha fatto qualcosa per la nostra vita. I loro bambini sono come i miei bambini. Volevo che sentissero di essere amati”. Lo stesso George Bush è colpito, e pubblicamente parla di “persone semplici dall’animo nobile che quando seppero di Katrina fecero di tutto per raccogliere mille dollari per le vittime”. Lo farebbero di nuovo, assicura Rose: “Anzi – sorride – mi dicevano: peccato che non siamo vicini a New Orleans, se no potevamo ospitarli da noi. Il cuore dell’uomo è così: quando vede un altro uomo in difficoltà si muove”. Ogni giorno il corteo delle spaccapietre attraversa il villaggio cantando e danzando per andare al lavoro. La gente fa come due ali per la strada. Le donne del Meeting Point non sono più malate da evitare. Sono diventate persone da invidiare. Come quando si sfidano a calcio sul campetto di terra e erba, gialli contro blu, madri e figli sieropositivi insieme.

 

“Greater” si chiama così perché “più grande” è stata la parola che ha cambiato la vita a Vicky, la cui storia attraversa il film come un filo rosso triste e bellissimo, di quella tristezza che fa piangere di gioia alla fine. Abbandonata dal marito e con il terzo figlio in arrivo, Vicky scopre di avere l’Aids. Resta sola, disperata, il corpo e le ossa che le bruciano come se fosse immersa in una vasca di acido. La prima volta al Meeting Point pensa di essere in un club. Incontra Rose che la guarda negli occhi e le dice: “Il tuo valore è più grande del valore della malattia”. Quella frase le resta in testa, scava dentro per giorni e giorni. Alla fine Vicky cede. Un’altra donna racconta che “nel giro di un mese sono migliorata improvvisamente. E il merito non è stato delle medicine, ma di come mi trattava quella gente”.

 

Vicky torna ad essere bellissima, diventa un’altra. Adesso aiuta Rose a mandare avanti il Meeting Point. Lo scorso anno è stata la testimonial delle Tende Avsi, il momento nel periodo di Natale in cui l’ong raccoglie fondi per tutti i progetti che ha nel mondo, e che quest’anno sostiene opere in Paraguay, India, Terra Santa e Uganda. Nessun calciatore o attrice cinematografica, ma una donna cambiata da un incontro. “Sì, è vero – racconta un’altra ragazza di “mama Rose” – io morirò. Ma tutti moriremo. Solo che io avrò avuto una vita piena”. Quando vede qualcuno che crolla, Vicky gli racconta la sua storia: “E loro smettono di piangere. Cominciano a muoversi. Cominciano a camminare”. Veneranda ha cinquantacinque anni. Ne dimostra almeno dieci di meno. Veneranda è malata da tempo di Aids: “Ora mi sento bene, lavoro, le febbri che mi buttavano giù sono scomparse, posso correre, tutto quello che voglio fare lo riesco a fare. Noi ringraziamo mama Rose per quello che fa e per quello che continua a fare. Nessuno poteva immaginare di avere qualcuno come lei in questo mondo”.

 

“Pensi che ammalarsi sia la fine di tutto?”. La mamma di Winnie ha appena detto a Rose che sua figlia ha scoperto di essere ammalata. Winnie non parla. Ammalarsi non è la fine di tutto, Rose lo sa. “Noi siamo là, lo sai, quando vuoi venire noi ti aspettiamo”. Winnie si alza, scappa in casa, piange. Rose in silenzio le va accanto. La telecamera inquadra la sua mano sulla spalla di Winnie. Due giorni dopo Winnie comincia la scuola di cucina al Meeting Point. Comincia a imparare una cosa nuova appena ha saputo che forse non le resta molto da vivere. Ora Vicky guarda al suo valore come qualcosa di più grande del valore del virus, “che lo ha soppresso. E questo significa che ha soppresso il valore della morte”. Tutte queste donne hanno una storia da raccontare, “ma senza il valore ogni storia è niente, è morta”. E invece tutto serve, ripetono. Anche le pietre della cava di Kampala.

 

(Nelle foto: Le donne del Meeting Point prima di una partita di calcio - Scolari orfani di genitori morti di Aids: è uno dei progetti finanziati da Avsi in Uganda - foto www.avsi.org)

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.