Wanna Marchi e la figlia Stefania Nobile (LaPresse)

Wanna Marchi, specchio di un'Italia abbagliata dalla peggio tv

A osservarlo oggi, quel mondo sgangherato delle televendite sembra un Far West. Ma forse un giorno guarderemo nello stesso modo gli imbonitori su Instagram

Michele Masneri e Andrea Minuz

Su Netflix un ritratto degli anni 80. Dalle creme miracolose agli incantesimi. Una serie racconta le imbonitrici, madre e figlia, che hanno anticipato le influencer. Giocavano con le emozioni del pubblico, tra modernità e pensiero magico

La prima cosa che colpiva era la voce. Le urla, le grida, gli acuti così striduli di Wanna Marchi. Anche altri televenditori erano grandi urlatori, ma lo strillo improvviso di Wanna Marchi aveva qualcosa di ipnotico. In quelle sfuriate contro il grasso, la ciccia, il lardo, i punti neri, la forfora, che fecero la fortuna della Wanna Marchi anni Ottanta, prima della svolta esoterica, c’era una grande anticipazione dei tempi: l’iracondia di Sgarbi, gli ululati di Mario Giordano, le urla di Beppe Grillo al V-Day o i comizi strillatissimi di Giorgia Meloni, autoproclamatasi “cintura nera di urla”, sono tutti un po’ in debito con lei. Il suo celebre claim, “d’accordooo??”, tormentone televisivo che riuscì a trasformare anche in un tremendo “rap”  alla fine degli anni Ottanta, certo non avrebbe sfigurato tra gli slogan di questa campagna elettorale: Scegli! Credo! Pronti! D’accordo?? E se le cose fossero andate diversamente, chissà, forse oggi ci sarebbe stato posto anche per lei in qualche lista, listone o accozzaglia elettorale.

  

Il suo celebre claim, “d’accordooo??”, certo non avrebbe sfigurato tra gli slogan di questa campagna elettorale

  
“Wanna”, la docuserie sulla sfolgorante vicenda di Wanna Marchi e sua figlia, Stefania Nobile, è un altro capitolo della controstoria d’Italia che sta scrivendo Netflix. Come già in “Sanpa”, o “L’Isola delle rose”, vicende più o meno recenti, personaggi più o meno rimossi che tornano a tormentarci, ancora una volta con l’Emilia Romagna come epicentro. E qui bisogna forse interrogarsi. Un allevatore di cani col trip per il paranormale che s’inventa capo e padrone di una comunità di reietti; un ingegnere mezzo matto che costruisce un’isola a largo di Rimini e la proclama nazione; un’estetista di Castel Guelfo di Bologna che diventa imperatrice delle televendite, poi personaggio trash della tv, quindi strega da bruciare al rogo. Sullo sfondo, il solito paesaggio e repertorio italiano: un paese arcaico, un mondo contadino che non muore, un’Italia superstiziosa, misteriosa, profonda, di provincia, in bilico tra smanie di modernità e pensiero magico.

  

Sono tutte contraddizioni e cifre e caratteristiche che in Emilia Romagna si fanno più forti. Una regione “laboratorio”, dove “si sono sperimentati in momenti diversi modelli potenzialmente validi per l’Italia”, come scrive Roberto Balzani nel suo “La Romagna”, edizioni il Mulino, studio sull’identità della regione (“la Romagna è davvero un bel caso di studio: fonde mitografie locali e mitologie nazionali, usa media moderni, appare di volta in volta come un’isola, un concentrato di italianità, una spremuta di regionalismo, un’autobiografia della nazione rurale e casereccia”, definizione che calza a pennello per la vicenda Wanna Marchi e quel pezzo d’Italia che sfreccia dentro gli anni Ottanta). L’Emilia Romagna dunque come centro della nuova Italia delle piattaforme – non petrolifere o del gas, ma post-televisive. C’è anche “Sotto il sole di Riccione” e poi in preparazione una fiction sul liscio e i Casadei di cui molti parlano. Non è la solita Italia del cinema, né quella di RaiFiction o Mediaset. Meno Milano/Roma o la Napoli di “Gomorra”.

  

“La Romagna è un caso di studio: fonde mitografie locali e mitologie nazionali, un’autobiografia della nazione rurale e casereccia”

   

Un arsenale di plot più vari rispetto a coppie in crisi, mafia e antimafia, polizia, carabinieri e guardia di finanza. L’Emilia Romagna sta a Netflix Italia come il sud degli Stati Uniti alle serie crime Hbo, tipo “True Detective” o “Sharp Objects”. Anche lì sempre vicende misteriose, posti desolati, negli altopiani al confine tra Kansas, Arkansas, Missouri, con questi piccoli centri abitati tutti uguali, e comunità rurali che si autogovernano, nascondono segreti, intrighi, sacche di magia, riti voodoo.  Se con “Sanpa” eravamo dalle parti del gotico padano di Pupi Avati, con “Wanna” vengono in mente anche molti film hollywoodiani. C’è “Joy”, ispirato alla vita di Joy Mangano, con Jennifer Lawrence casalinga disperata e inventrice del mocio per pulire i pavimenti che fa il botto grazie alle televendite. C’è un omaggio a “The Wolf of Wall Street”, proprio in apertura della docuserie. Il lupo di Wall Street diventa qui la tigre di Ozzano, Wanna Marchi, che prova a vendere una penna al cameraman, come DiCaprio nel film di Scorsese. Ma tutta la vicenda Marchi è nel suo piccolo una perfetta allegoria del capitalismo avanzato, nel passaggio dal manufatto alla smaterializzazione dei beni. Così dalle alghe bretoni, dalle argille, dalle creme degli anni Ottanta, Wanna Marchi arriva a vendere pezzi di fortuna, numeri del lotto, il “nulla” insomma.

 

  

L’oggetto non c’è più. C’è solo “l’esperienza”, come nella cucina molecolare. E quando ce lo spiega a modo suo nella docuserie, siamo dalle parti di “The Big Short”, il film di Adam McKay sulla crisi finanziaria del 2008: Margot Robbie a mollo in una vasca da bagno con lo champagne, che ci illustra il funzionamento della fuffa e della truffa dei mutui subprime non dice in fondo cose molto diverse. C’è, in “Wanna”, anche il mito del garage, come nelle grandi saghe della Silicon Valley: lei che alla fine degli anni Settanta, dopo aver fatto per un po’ la colf a Milano, da Vergottini, il leggendario coiffeur, si mette in proprio e affitta per diciottomila lire al mese un garage a Ozzano. Ma poi, a ricordarci che è pur sempre una storia italiana, ecco una hybris punita nel più feroce dei modi, con una giustizia a forma di inchiesta di “Striscia la notizia”. La televisione l’aveva creata, la televisione la distrugge. Da “Gran Bazar” alla vendetta del Gabibbo. Un’epica nel segno del trash.

 

C’è, in “Wanna”, anche il mito del garage, come nella Silicon Valley: lo affitta per diciottomila lire al mese a Ozzano alla fine degli anni 70

  
Naturalmente, “Wanna” è anche l’occasione per rivivere nell’èra di Instagram e TikTok la stagione epica delle prime televendite. Senza le idee, gli esperimenti, i trucchi, la cialtronaggine, l’improvvisazione, i colpi di genio della truppa dei teleimbonitori che invasero le prime “tv libere”, come si diceva negli anni Settanta, forse il berlusconismo, nel suo complesso di fenomeno televisivo-culturale-politico, non avrebbe avuto la stessa spinta, lo stesso impatto sulla società italiana. I televenditori prepararono il terreno. Entrarono in sintonia coi “territori”, come si dice ai congressi del Pd. Si immersero nelle emittenti locali, nelle regioni, nelle tante “piccole Italie” della nostra sconfinata e variegata provincia. “All’inizio degli anni Ottanta”, scrive Aldo Grasso ne “La tv del sommerso”, “le tv locali si impongono all’attenzione del pubblico non con l’invenzione di programmi particolarmente significativi, ma con le televendite affidate ad alcuni fantastici imbonitori”. Guido Angeli, Wanna Marchi, Walter Carboni, Roberto da Crema detto “il baffo”, sono i testimonial di “un’Italia sconosciuta ai più, un’Italia che si credeva finita per sempre”. Un’Italia che andava in gita a Biella, in pullman, partendo magari dalla Sicilia, con i viaggi organizzati dal mobilificio Aiazzone, e tornava a casa raggiante, carica di mensoline, cucine rustiche, camerette per bambini, “pagamento in 36 mesi, senza cambiali, consegna gratis in tutta Italia, isole comprese”. La televisione amplificava le imprese, ingigantiva le aziende, unificava il gusto e i desideri. I soldi giravano a palate. Se Aiazzone immaginava la sua immensa “città del Mobile”, Wanna Marchi si intestava un programma, il “Wanna Marchi Show”. Come Letterman o Costanzo. Perché lei non si limitava a vendere. Lei metteva in piedi un racconto quotidiano, una confessione pubblica, una specie di reality prima dei reality, con telefonate finte e una drammaturgia studiatissima.

 

Lo sfrenato dileggio del cliente diventò la sua cifra. Un imbarazzante “body shaming” contro “i ciccioni che fanno schifo”

   

Nel libro  “Wanna Marchi. Ascesa e caduta di un mito” di Stefano Zurlo (Baldini + Castoldi), da cui pesca a piene mani anche la docuserie (con Zurlo che diventa un po’ il narratore della vicenda) si dà voce a uno dei primi autori della Marchi, Antonio Crapanzano, incaricato di dare forma al personaggio nel laboratorio di ReteA, dove dalla mattina alla sera si vendeva di tutto. Crapanzano e Renato Caldarola trovano l’idea: “In quell’estate del 1983, Enzo Tortora era stato arrestato, ‘Portobello’ era orfano di padre, noi pensammo di occupare quello spazio. Calibrammo la Wanna televisiva all’incrocio di due icone: la base era Anna Magnani, la popolana, anzi la superpopolana, dagli scatti strepitosi; sopra ci spalmammo un po’ di Enzo Tortora, così rassicurante, familiare”. Ma certo Tortora non si sarebbe mai lanciato in quello sfrenato dileggio del cliente che diventò la cifra di Wanna Marchi. Un imbarazzante “body shaming”, come avremmo chiamato oggi quelle furibonde tirate contro i grassi, gli obesi, “i ciccioni che fanno schifo”. Qui la serie apre anche uno squarcio su un sessismo devastante, all’epoca non percepito, naturalmente. E’ tutto un inno al marito che ha sposato una donna “normale” e che poi si ritrova dopo qualche anno “una balena da novanta chili”. Oggi ovviamente e giustamente pare preistoria, ma questo percorso ci parla anche di quello che è cambiato nella società. Al tempo delle Marchi essere belli (soprattutto per le donne) era obbligatorio e se necessario si poteva essere insultate se serviva a raggiungere il risultato. Oggi con le nuove sensibilità l’imbonitrice che vuole vendervi il prodotto non vi insulterà più. Vi dirà che siete comunque bellissime/i, che andate bene così, che se siete “non conformi” è il vostro bello. A posto così? No, a questo punto però dovrete comprare comunque le fasce, lo scioglipancia, la spuma drenante e così via. Che sembra un po’ una contraddizione. Ma il teleimbonitore che nel frattempo si è trasferito su Instagram ha fatto un passo avanti. Non vi propone più un prodotto, è molto più sofisticato. Vi vende l’accesso al suo mondo, il partecipare alla sua vita oppure (argh) al suo stile di vita, il famigerato lifestyle. E noi lo vogliamo comprare. Tant’è vero che nessuno di noi avrebbe mai comprato alcunché di Wanna Marchi, non lo scioglipancia né i sali, eppure l’accesso al suo mondo (la serie) la paghiamo tutti, e ne vorremmo ancora.

 

LaPresse

 

Se guardiamo al vecchio mondo delle televendite ci pare un sistema tra il tragico e il fantozziano, con quei fondali cheap e le masserizie esposte, le pentole da cucina e i cambi Shimano e lo sfarfallio della bassa definizione. Le urla di Wanna e Stefania ci paiono far west. Ma forse un giorno vedremo anche questa galassia di venditori instagrammatici di oggi come lo stesso far west. Da quelli che espongono i figli – con tanto di amniocentesi ed ecografie prenatali – alle terapie di coppia, gli animaletti, i parenti, le crisi, i pianti, i domestici, in un palinsesto sgangherato senza fasce protette e senza regole per dirottarci verso prodotti #giftedby o #suppliedby. Scanalando oggi su Instagram, cos’è oggi tutto questo se non una generale e infinita televendita? 

 

Ai tempi di Wanna Marchi i teleimbonitori non avevano accesso alle Biennali, non erano percepiti, magari a torto, come intellettuali

 

Un’altra differenza è che ai tempi di Wanna Marchi i teleimbonitori non avevano accesso alle Biennali, non erano percepiti, magari a torto, come intellettuali. Al povero esperto d’arte Francesco Boni che vendeva tappeti e statue e quadri sulla leggendaria bresciana Telemarket, poi trasfigurato nel dottor Armà, “Prrrotagonista del Novecento”, da Corrado Guzzanti, gli Uffizi non avrebbero proposto un ingaggio per invogliare turisti a mettersi in treno per Firenze. Oggi invece i nuovi teleimbonitori sono ingaggiati spesso da istituzioni culturali, anche se magari si occupano di spume per capelli (e noi per primi, chi produce quei manufatti radioattivi chiamati giornali o libri, è tutto uno sperare che i nuovi teleimbonitori ne parlino, facciano una story, e qualche malcapitato decida poi di acquistarli tra le merci del Gran Bazar). 

  
Nei teleimbonitori di oggi è come se quel palinsesto di televendite e soap opera scalcagnate sudamericane e telequiz “vorrei ma non posso” che erano le tv private si fosse fuso. Il moderno teleimbonitore ti vende la crema, poi ti offre un angolo della posta, poi si mette il vestito buono e ti porta alla Scala e ti fa sognare in un abito che tu non ti potrai mai permettere. Poi nel caso ti dà anche consigli politici, insomma copre tutto il palinsesto che una ReteA di trent’anni fa spalmava su dieci programmi. La televendita ha inglobato tutto.

  
I nuovi teleimbonitori possono essere inspirational come l’Estetista cinica, ex estetista oggi imprenditrice di enormi fatturati con la sua linea Veralab, che espone il suo corpo non perfetto fasciato e spalmato delle sue creme e  bende rassodanti, e il messaggio che passa è: non devi essere perfetta  (tra l’altro impressiona il packaging simile a quello dello scioglipancia by Wanna Marchi). Talvolta invece il modello è irraggiungibile, devastantemente aspirational come le lacche e gli shampoo di Chiara Ferragni, o il vasto mondo di prodotti di Gwyneth Paltrow, che genialmente riciclatasi ha messo su Goop, impero di accessori per il corpo, la casa, il benessere, di cui alcuni non avrebbero sfigurato nel catalogo Wanna Marchi (vibratori di ogni specie, c’è un Viva La Vulva a 98 dollari, mazzi di carte per stimolare la conversazione tra coniugi – 25 dollari – e gli integratori “Mother Load” a 90). 

  
Chissà che madre ha avuto Gwyneth Paltrow, perché nella serie sulle Marchi forse il vero tema è questo matriarcato fortissimo, il rapporto tra le due, la simbiosi (“non sarò mai altro che la figlia di Wanna Marchi”, dice Stefania, il farsi forza a vicenda: tutto crolla solo quando le separano in cella, tipo fratelli Bianchi). Le Marchi ce l’hanno fatta senza nessuno, soprattutto senza inutili uomini attorno, che sono solo peso e ostacolo. Rispetto ad altri matriarcati gli uomini non li hanno tenuti neanche solo per decorazione; come nella saga dei Ferragnez dove si vede il loro ruolo appunto decorativo, del padre Ferragni e del suocero Lucia, mentre tutto è in mano alle pazzesche donne di famiglia, la scrittrice mamma di Chiara, la mamma manager di Fedez (oltre alla fenomenale nonna cartomante di Fedez; e lì, nel lato più esoterico, potrebbe esserci una somiglianza e un collegamento con la storia che stiamo trattando). Man mano che il “fuoco” si allarga, da Marchi e da Stefania Nobile, entrano anche in scena nella serie una serie di personaggi secondari notevoli: Milva Magliano, Capra de Carrè, il mago Do Nascimento.

 

Con loro c’è il mago Do Nascimento, già maggiordomo che serviva a tavola dal fantomatico marchese “Capra de Carrè”

   
Milva Magliano, consigliera occulta, amica e poi forse nemica, sempre minacciosa, è un personaggio che sembra aver sbagliato serie, sembra uscita da Gomorra, “pluripregiudicata per truffa (le più recenti riguardavano il commercio di opere d’arte), reati finanziari e altro ancora (nel curriculum ha anche una condanna, negli anni 80, per appartenenza alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo)” (Corriere della Sera). Il mago Do Nascimento, già maggiordomo che serviva a tavola scalzo a casa del fantomatico marchese “Capra de Carré”, per poi diventare non mago ma “maestro di vita”, in quanto nipote di una sacerdotessa o sciamana (vabbè) in Brasile. Dispensatore di numeri del lotto e attivatore del sale miracoloso (“il rito se non è attivato dal maestro di vita mica funziona”, dicono le telefoniste). Ma eccoci al personaggio più gustoso di questa gang di sfessati, il marchese o conte Attilio Capra de Carrè. Siamo alle grandi spy story italiane; altrove hanno John Le Carré, noi Capra de Carrè. Un vecchio articolo di Repubblica lo dà non marchese ma conte. Anche secondo l’Annuario della nobiltà italiana i Capra de Carrè è “antica famiglia nobiliare vicentina”, sono “conti palatini”. Wanna Marchi lo conosce in quanto vicino di casa a Porto Cervo. “Un sedicente conte milanese. Un uomo non più giovane, fisico basso e tozzo, che anni fa portava, nonostante la moda di Little Tony fosse finita da un pezzo, un davvero mitico ciuffo a banana. Mai stato nobile. Era uno ‘zanza’, un truffatore, un vero esperto di sparizioni di denaro altrui a proprio favore. Siamo nel ’96 quando lo ‘zanza’, che adesso è molto malato, si prende in casa Mario dal fisico da ballerino, appena sbarcato dal Brasile. Mario diventa anche il cuoco di casa, viene presentato come il maggiordomo. Insomma, deve molto al ‘conte’, ma non esita quando il suo mentore e Wanna smettono di avere affari in comune (allora vendevano creme dimagranti): lo molla e diventa il maggiordomo della signora delle aste tv. Dalla dispensa allo studio tv il passo è breve” (Repubblica). Infatti Wanna e la figlia Stefania a un certo punto tradiscono il marchese o conte e si mettono in proprio, e da lì secondo loro arriverebbero tutte le sventure. Il marchese o conte è dato come intimo di Marcello dell’Utri, allora gran capo di Publitalia, e la successiva caduta delle Marchi è data anche – tesi affascinante – come conseguenza della volontà del mondo berlusconiano di far fuori il variegato mondo delle tv private minori. Intanto il conte o marchese ci prova anche con la politica, tentando di farsi eleggere con la Lega (ci sono degli spezzoni di lui che tenta di parlare in dialetto milanese senza gran successo). Oggi è scomparso, non ha lasciato tracce, peccato perché nel 26 per cento dell’Italia meloniana forse a ‘sto giro ce l’avrebbe fatta pure lui. Scomparso anche il mago Do Nascimento, forse tornato in  Brasile, comunque completamente libero, ha beneficiato dell’indulto nel 2006. 

  

Wanna Marchi e Stefania Nobile al processo (Ansa)
    
Wanna Marchi voleva fortemente essere estetista. Era quanto ci fosse di più vicino al suo sogno, fare il medico, ma siccome non può studiare, quello da estetista è l’unico camice bianco che può indossare. Intuisce la centralità della figura dell’estetista come confessore, complice, calamita di ansie, emozioni, aspirazioni. L’estetista anche come operatore della contemporaneità: che ti vende creme e massaggi pur nella consapevolezza che non serviranno probabilmente a niente. E certo la comunicazione è cambiata totalmente in trent’anni, e però qualcosa in comune c’è. Per esempio il vittimismo, che sembra assente del tutto nella morfologia della fiaba di Wanna Marchi, col rimarcare che la figlia viene arrestata anche se malata, ma “queste cose ce le teniamo per noi”; come a dire, never explain never complain. C’è una notazione molto interessante quando Wanna Marchi stessa dice qualcosa contro il mondo di oggi, un mondo in cui “tutti si sentono defraudati dalla vita”. Ognuno coi suoi traumi, un mondo che non può essere il suo, lei che nasce in una casa in cui non c’era da mangiare, lei che a un certo punto si mette a truccare i morti come lavoro, per tirare avanti, lei sì che ne avrebbe di traumi da tirar fuori, ma l’unico motivo per cui è sopravvissuta è che ha deciso di non ricordarseli. 

  

Il suo segreto è non avere l’inconscio. Dopo il crac finanziario a fine 80 il marchese Capra de Carré inventa la seconda vita della venditrice

   
Il suo segreto è non avere l’inconscio. Dopo il crack finanziario che chiude gli scintillanti anni Ottanta di Wanna Marchi & figlia, con un impero di prodotti ormai svanito, il marchese Capra de Carrè inventa la seconda vita della venditrice più brava di tutti. La tv c’è sempre. Lo stile, la tempra, le urla, i siparietti son sempre quelli, ma la platea cambia. Si allarga. Entrano i disperati, colpiti magari da disgrazie tremende, in cerca di un appiglio qualsiasi che lenisca il dolore. Wanna Marchi non è più una simpatica imbrogliona che promette di perdere peso. “La Wanna Marchi degli anni Novanta è diversa da quella del decennio precedente”, scrive Zurlo, “alghe, creme e lozioni, ma poi numeri magici, la fortuna e la malattia, ora le Marchi non si limitano a gridare, ‘D’accordooo?’. Ora il malocchio e la negatività sono il pretesto per colloqui agghiaccianti e il mago, il ‘maestro di vita’, è il testimonial di questa industria della creatività”. I centralinisti evocano sciagure. Siamo in una zona oscura tra il plagio e il ricatto, la truffa, il raggiro più bieco. Lei però, Wanna Marchi, non vede alcun reato. Non l’ha mai visto. Pensava di muoversi tra la posta del cuore e l’oroscopo, magari con qualche scorrettezza, ma quale venditore non ricorre a trucchi e inganni per acchiappare il cliente? Lo ribadisce nel documentario, dunque a distanza di anni, sostenendo che “i coglioni vanno sempre inculati”, con piglio mussolinesco (un altro contributo dell’Emilia Romagna), voce ferma, implacabile, una sentenza, un comandamento. E qui si gioca tutto. Di chi è la colpa? Di Wanna Marchi? Della televisione? Dei creduloni che abboccano invece di riattaccare il telefono? Il processo, le prove, le sentenze sono nette. I reati anche. Però siamo in fondo nella stessa zona oscura di “Sanpa”, con la mano tesa da Muccioli ai tossicodipendenti che sconfinava in prigionia, sequestro di persona. Si esce così un po’ frastornati anche da “Wanna”, inorriditi e affascinati, con la sensazione di aver assistito a uno spettacolo lontanissimo e vicinissimo a noi allo stesso tempo. 

 

Marchi sembra lontana anni luce dall’impero del vittimismo odierno, dal vittimismo performativo che fa vendere i prodotti sui social. Eppure c’è anche lì. Lei ricorda il momento esatto in cui comincia ad avere successo, e avviene non per la bontà dei suoi prodotti, ma per una specie di mozione degli affetti. Dopo aver comprato un po’ di spazi pubblicitari su una tv locale, in cui fa le sue prime apparizioni, nessuno telefona. Nessuno se la fila. In quella che pensa sarà la sua ultima apparizione dice ai telespettatori, in lacrime, che non si può permettere di andare avanti, che non ha più soldi, e dunque addio. Lì, solo lì, i centralini cominciano a squillare, e non smetteranno più. Siamo di fronte insomma all’eterno chiagni e fotti performativo, da lì nasce tutto, evidentemente molto prima di Instagram, ma anche della “Cultura del piagnisteo”, il libro di Robert Hughes che è del 1993.

Intanto cambia il medium e forse anche il messaggio, i teleimbonitori si adeguano ma rimane il format “Gran bazar”. Non vendono più solo mercanzia ma diventano esperti d’arte, divulgatori per le Biennali  (la Wanna forse l’avrebbe solo sognato, forse non si sarebbe spinta a tanto, forse ne avrebbe riso) e oggi alternano creme, alghe, fasciature, a scrittura di  romanzi, saggi, statement politici. 

 

Mixando abilmente l’esibizione dei risultati del meritato successo con i drammi personali (Estetista cinica esibisce per esempio la Mercedes fiammante, proprio come Wanna Marchi: “ho preso la Mercedes e non ne sono più scesa”), e però subito dopo attacca: io che non ho potuto studiare, io figlia di operai, ecc. E qui naturalmente si faranno dei distinguo dal wannamarchismo, non c’è truffa e non c’è inganno nella Cinica,  imprenditrice che si è fatta da sé, così come in tanti altri instavenditori di oggi che ci provano, ce la mettono tutta, in un settore oltretutto sempre più affollato e specializzato. 

 

Il sabba degli influencer appena fiuta il sangue prevede l’epurazione, se non dei pori, degli avversari, o di chiunque capiti a tiro 

 

Ma si è comunque già pronti alla shitstorm estetistica, figuriamoci, ci si è già passati; del resto il palinsesto instagrammatico odierno campa di indignazione, che è l’equivalente del cash degli anni Ottanta. E’ nervoso,  il mondo influenceristico, perché non sa quanto durerà (come le televendite degli anni Ottanta,  è un mondo che potrebbe essere spazzato via senza preavviso). Il mondo di Instagram oggi è  come se fosse una grande Rete A in cui ogni televenditore, invece che andare in onda felice per l’opportunità di fare quello strambo lavoro, non vede l’ora che qualcuno sbagli per massacrarlo. Certo senza bodyshaming, ma una bella rissa premia ora come allora. Lo dimostra, ultimo, il caso Giulia Torelli di questi giorni, l’influencer milanese attaccata dal branco per alcune poco accorte battute pronunciate sui “vecchi”. Tutto il mondo influenceristico si è subito accanito contro di lei. Il sabba degli influencer appena fiuta il sangue prevede infatti l’ epurazione, se non dei pori, degli avversari, o di chiunque capiti a tiro, tutti insieme contro il soggetto debole, mentre gli altri guadagnano l’indignazione che porta like. Anche questo è un rito purificatorio, che utilizza il sale magico di oggi, l’algoritmo. 

 
La dinamica di oggi dei moderni televenditori, che oscilla tra autocompatimento e feroce caccia al malcapitato da crocifiggere, ricorda, questa sì, la sulfurea danza stregonesca di Wanna Marchi, del mago Do Nascimento e di Stefania Nobile, in un clima di eccitazione perenne, e la minaccia dell’epurazione, della pubblica gogna, ricorda la jettatoria evocazione di sciagure, fatture, malocchi, incidenti terribili. Solo che una volta bisognava accendere la tv, alzare il telefono e chiamare, per aver accesso a quest’antro. Adesso l’influencer ci vive dentro, il tuo telefono. Lì dentro c’è sempre il Gran Bazar, pronto a saltar fuori, quando meno te l’aspetti.