Carlos Alcaraz festeggia dopo la vittoria contro Francis Tiafoe agli Us Open (foto EPA)

Il crocifisso a Londra e il tennis a NY. Storia di due lezioni per la Dams culture

Giuliano Ferrara

Silenzi oranti in cattedrale e palle incatenate sul cemento riscattano la stanchezza di un mondo che sopravvive a sé stesso e che ora ricorda cosa vuol dire “a immagine di Dio”

La Dams culture ha prodotto molte cose buone, ottime, e ci ha liberati di infinite pedanterie accademiche. L’idea è dal Barocco, il segno prevale sul volume. L’apparente conseguenza nel vedere il contemporaneo ha invece qualcosa di stanco, il manierismo dell’entertainment. Così la morte della Regina è la conclusione di The Crown, il che non è genialmente fictional, è falso e per di più molto banale. La fenomenologia di Carlo III, per richiamare un titolo di Umberto Eco giustamente celebrato nel segno di Mike Bongiorno, mi smentirà, è possibile. Intanto la morte della Regina è la cerimonia di ringraziamento tenuta nella cattedrale di San Paolo, nella City, una superba, composta, commossa elegiaca assemblea di duemila londinesi, con tutte le facce del mondo strette in un abbraccio cristiano e occidentale alla presenza del sindaco musulmano della città. Sanno come si popola una terra desolata, in ogni epoca. 

 

Behold o God our defender: salmi, brani dalla Sapienza, discorsi di commiato di diaconi e diaconesse, fino alla predica severa dell’arcivescovo anglicano, una liturgia angelica e infantile fondata sul canto corale, ripetizione del già detto e ascoltato sulla scena della formidabile chiesa di Christopher Wren, una mescolanza di astrologia e architettura concepita per la resurrezione di Londra dal suo grande incendio. Lì si capiva, per la diretta della Bbc, la regola di protocollo per cui la Regina non doveva essere toccata, a parte le strette di mano da lei graziosamente offerte: era ed è intoccabile. C’è qualcosa che ci sfugge e che sta ai piedi dell’icona unica vera della nostra non-Dams culture, il crocifisso. La comunità esiste ed è peccatrice, forte, ricca, dominante, coloniale, multiculturale in effigie, perché i simboli non sono segni, e tanto meno intrattenimento, sono compendi, fascio di autentici significati, generano sguardi tristi e bellissimi di un pubblico malinconico e stordito, producono lacrime salate, accompagnate dalla scala dell’organo e, in un momento altissimo di verità, dalla passeggiata ritmica nella navata centrale del suonatore di cornamusa in kilt. L’occidente esiste ancora, se ti offre la carnalità di un suono che viene dal basso medioevo sulle gambe di un suonatore che procede come a passo di tango in una folla infinitamente credente e del tutto secolarizzata (non c’è contraddizione). Questo il venerdì sera. 

Qualche ora dopo a New York, 23 gradi e poca umidità, e siamo al sabato mattina per il nostro fuso orario, il miracolo si riproduceva nello scontro a pallate tra il ragazzino d’oro Carlos Alcaraz e il mastodonte buono che viene dalla Sierra Leone, quel Frances Tiafoe dotato degli occhi più profondi dell’universo e di una mimica emozionale senza precedenti sulla scena dei segni. Un gigante dalle anche d’argilla, che procede con il culo all’indietro e batte come un Dio. Agonismo, mito, coro dell’Arthur Ashe Stadium, la battaglia di un talento bianco di Murcia contro la caparbietà geniale di un nero figlio di immigrati recenti che vengono dalle miniere dell’Africa occidentale, con le star del candore hollywoodiano e la gigantesca e sorridente figura di Michelle Obama, bella come poche tra il pubblico a soffrire per quasi cinque ore.

Tutti hanno letto David Foster Wallace e qualcuno anche John McPhee sulla Ascot senza cappellini dove a correre non sono i cavalli ma persone, maschere. Tutti più o meno sanno che nel tennis giganteggia la versione assoluta eroica, superomerica dell’individuo che non conosce il pareggio, ma solo vita o morte. Il tennis è fatto, per usare una formula blasfema, a immagine di Dio. Behold o God our defender. E in un teatro in cui sembrano sopravvivere solo segni minori deboli, come un bussino elettrico, modesto, di campagna elettorale o i palchi sfiorenti dei comizi di paese, e tutte quelle balle lì della democrazia irrinunciabile imbruttita, ecco che silenzi oranti in cattedrale e palle incatenate sul cemento riscattano la evidente stanchezza di un mondo che sopravvive a sé stesso. 

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.