La regina del cuore

Il mondo dopo Elisabetta II

Michele Masneri

Siamo all’ultima stagione di una lunga, avvincente e non replicabile fiction di stato. “The Crown” è stato un gran ripassone di una storia che ci tiene inchiodati dal 1952 

Quando si ebbe a chiedere a Reed Hastings, leggendario fondatore e ceo di Netflix, in una colazione all’hotel de Russie a Roma, qual era la sua serie Netflix preferita, non ebbe dubbi. Non “Gomorra” che pure scoprì essere girata  in quelle stanze, ma “The Crown”. Non volle dire, il californiano, se, come in molti sussurrano, Casa reale aveva visionato il prodotto, ma quel che è certo è che con la dipartita di Elisabetta si concluderà l’ultima stagione di una lunga, avvincente, per molti versi non replicabile fiction di stato (non quella che voleva Franceschini).

 

E non disdici quando vuoi: lei è arrivata fino in fondo; e chissà quanti errori e licenze saranno state prese rispetto alla realtà, non solo in “The Crown” ma anche in tutti i prodotti e sottoprodotti e derivati che il piccolo e grande schermo hanno messo su negli anni grazie a quella famigliona disfunzionale dei Saxe-Coburg-Gotha poi trasformati in Windsor nel 1917 quando non era chic avere dei cognomi tedeschi. Anche questo lo si è visto e rivisto nel polpettone netflixiano, col casato molto nazista del povero e belloccio principe Filippo, la di lui mamma mistica che sembra la santa della "Grande bellezza", ma senza fenicotteri, la sbevazzona e infelice Margaret che nella realtà stava sempre a Roma sull’isola Tiberina – oggi sarebbe un’influencer pazzesca di lamenti e lifestyle globale; e lo zio di Filippo lord Mountbatten molto pedofilo e pazzo per le uniformi e per chi c’è dentro (ma questo era troppo perfino per Netflix) che orchestra il matrimonio del nipote e infine finisce brillato per una bomba dell’Ira (ma poi Elisabetta andrà ugualmente in Irlanda). E l'altro zio pure lui nazista, che molla il trono per una divorziata americana di furbizia orientale che se la fa con von Ribbentrop? Qui, anche un producer di Saxa Rubra direbbe: non esageriamo. 

 

E invece, dove lo trovi un plot così, oltretutto in una sola famiglia, per quanto allargata. Non funzionerebbe in Spagna con la regina malmostosa e silente, per non parlare delle monarchie nordiche, con la regina di Danimarca molto artista e bisognosa di pulizie dei denti. Né il Lussemburgo offrirebbe set adatti, senza cacciagioni e cervi.  

 

La Gran Bretagna ha sempre potuto invece contare non solo su trame e location ma anche sui suoi monarchi come straordinari testimonial per product placement, pensiamo alle macchine, dalle Range Rover alle Mg, fino ai biscottini al burro celebrativi di battesimi e nozze reali, in scatola di latta magari made in China come ormai le auto, fino ad arrivare a quelli biologici e km zero di Carlo. Le quattro stagioni che appassionati (e non) seguono col fiato sospeso sono state un grande ripassone per una saga senza uguali, che tiene gli inglesi inchiodati dal 1952, quando Elisabetta nel pieno di un viaggio kenyano scopre che il padre, Giorgio VI, è infine atterrato dal male polmonare che lo faceva soffrire da sempre. Anche lui parte dell’indotto, e che indotto: dal “Discorso del re”, fino a “The Queen”, fino al recente, “arty”, e presuntuoso “Spencer”, che sposa la causa di Diana, morta venticinque anni fa.

 

E chissà cosa sarà dopo Elisabetta la monarchia inglese, in tv e nella realtà, con Carlo già nonno e coi Cambridge scalpitanti e coi Sussex scappati (letteralmente) di casa, però quello che è certo è che il royal grant, ciò che la Gran Bretagna paga ai suoi royals, 9,9 milioni di sterline per l’anno fatale 2022, genera da sempre come investimento dei multipli pazzeschi, altro che superbonus o bonus zanzariere, garantendo un mercato e una sussistenza a fotografi, turismo, tabloid, biscotti, vestiti, da uomo donna e unisex: una cifra che comunque non basterebbe per mettere su neanche un Don Matteo, un commissario Imma Tataranni, figuriamoci la più grande saga audiovisiva di tutti i tempi.  

 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).