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L'Uomo Ragno fa sessant'anni (di complessi e sensi di colpa)

Il primo supereroe adolescente, creatura di Stan Lee e Steve Ditko, nasceva nel 1962. Una lunga storia raccontata in un libro di Marco Rizzo e Fabio Licari, che oggi prosegue anche grazie ad artisti italiani

Nicola Contarini

Nell’agosto di sessant’anni fa compariva per la prima volta nelle edicole americane un personaggio in calzamaglia rossa e blu che avrebbe rivoluzionato il mondo dei supereroi. Era l’esordio di Spider-Man nella serie antologica “Amazing Fantasy” numero 15. Il successo fu tale da convincere la Marvel a dedicargli subito una testata tutta sua, “The Amazing Spider-Man”, che prosegue ancora oggi.

  

Festeggiare il compleanno del nerd sfortunato Peter Parker, figlio della penna di Stan Lee e dell’inchiostro di Steve Ditko, ha un significato in più in Italia. “Il rapporto speciale è dovuto al fatto che intere generazioni di lettori italiani sono cresciuti con i fumetti Marvel”, spiega Marco Rizzo, giornalista e sceneggiatore, con Fabio Licari autore di “Spider-Man. Sessanta stupefacenti anni” (Panini Comics, in uscita a settembre). “L’Italia è uno dei pochi paesi in cui questa lunga epopea è stata pubblicata in maniera continuativa e più o meno ordinata sin dagli albori, nel nostro caso dagli anni 70 con la mitica Editoriale Corno”.

 

Letture che poi hanno fruttato bene: “Tra i disegnatori Marvel ci sono oggi diversi italiani come Gabriele Dell’Otto e Marco Checchetto, e alcuni particolarmente legati all’Uomo Ragno, come Stefano Caselli che ha lavorato su ‘The Amazing Spider-Man’, Giuseppe Camuncoli che ha illustrato saghe celebri come ‘Spider-Verse’, e Sara Pichelli, co-creatrice dello Spider-Man ‘nero’ Miles Morales. In generale, internet ha abbattuto certi ostacoli logistici ed è sempre più facile trovare all'opera per il mercato americano disegnatori non americani, oltre agli italiani, anche tanti spagnoli e brasiliani”. 

 

Artisti e storie che quindi fanno parte di un universo ancora florido. Eppure, rileggere oggi la origin story dell’Uomo Ragno non può che accendere una vena di malinconia. Una origin story da supereroe perfetta ma anche inattuale, una contraddizione che si mostra tutta nel mantra di Peter Parker: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. In effetti, come un eroe così ispirato abbia potuto diventare tanto popolare è quasi un mistero.

 

Breve riassunto: il timido e geniale quindicenne Peter Parker acquisisce dei superpoteri in un incidente in laboratorio e li sfrutta per diventare un personaggio del wrestling e della tv, in incognito. E’ un orfano, vive con gli zii Ben e May. Un brutto giorno, assiste a una rapina ma si rifiuta di fermare il ladro, non è affar suo dice, è diventato arrogante ed egoista. Scoprirà poi rincasando che quello stesso rapinatore ha sparato allo zio Ben, uccidendolo. Peter, devastato dal senso di colpa, si mette a fare il vigilante mascherato.

 

C’è un realismo che colpisce duro in questo fumetto per ragazzi. I superpoteri altro non sono che la metafora amplificata dei “dolori della crescita”. Superpoteri che a Peter capitano per caso, al contrario di altri che se li sono procurati volontariamente. Non c’è nessuna vocazione a fare l’eroe da parte dello smilzo secchione, che anzi vede solo l’occasione di rivalsa sui bulli e le pupe che a scuola lo tormentano. E poi c’è quella frase sulla responsabilità, tradizionalmente attribuita allo zio Ben (che nei film la pronuncia all’oscuro della doppia vita del nipote!), ma che nel fumetto originale appare solo in una didascalia. 

 

“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”: dirla a un adolescente oggi sarebbe considerata una micro-aggressione. Il potere, certo, lo vogliamo, ma non siamo in fondo tutti vittime di una società che ci opprime e ci tarpa le ali? E le responsabilità? Come ti permetti tu, boomer, di farmi la paternale? In effetti la reazione di Peter alle preoccupazioni degli zii è esattamente questa. La storia però va avanti e osa mostrare il costo terribile della sua scelta. Spider-Man diventa così il modello di supereroe nevrotico, e gli scontri con i nemici, sempre pericolosamente vicini alla sua vita privata, si trasformano in estenuanti sessioni di autoanalisi.

 

Un modello che si vede superato soprattutto al cinema, con buona pace di Tom Holland che ha degnamente raccolto l’eredità di Tobey Maguire e Andrew Garfield: sull’individualismo del vigilante in lotta con i suoi demoni hanno vinto le ammucchiate degli Avengers contro la minaccia globale - sempre questa fissazione dell’apocalisse incombente - oppure le interpretazioni “sociologiche” di Batman, il problema della sicurezza, la criminalità e le città alienanti e invivibili. Spider-Man invece rimane il supereroe “borghese”, che parla più al cuore che alla testa. Con lui torniamo sedicenni a leggere con la torcia sotto la coperta.

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