Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Facciamo pure i conti con la crisi dell'ideologia eroica

Edoardo Rialti

Bompiani ha ripubblicato da poco, in versione estesa, “L’eroe imperfetto” di Wu Ming 4

"Credi che io sia un uomo come tutti gli altri?", domanda il Lawrence d’Arabia-Peter O’ Toole all’amico Ali, con occhi che bruciano di messianica, ardente alterigia. Eppure in quella sicurezza si coglie già una vibrazione di sofferenza, che poi traboccherà a scuotere con desolante incertezza il conquistatore di Aqaba, quando un ufficiale britannico gli riconoscerà “Voi siete l’uomo più straordinario che io abbia mai conosciuto”.

 

L’eroismo è una elezione dolorosa, che esalta e separa, unisce e distanzia. Lo sanno i re di Israele, che si celano ai profeti che volevano ungerli, e i guerrieri nordici che nel furore diventano temibili come i mostri che volevano abbattere. Questo nodo, la nostra costante attrazione per chi, dai nostri antenati a oggi, ha saputo voltarsi mentre ci inseguivano le bestie e puntare una picca e gridare, e al tempo stesso il pericolo annidato nel culto di un simile coraggio, si ripete ancora e ancora, comprende opere sublimi e blockbusters Marvel.

 

“È questa incessante riscrittura che garantisce loro longevità”, nota Wu Ming 4 ne “L’eroe imperfetto”, saggio Bompiani da poco ripubblicato in versione estesa sulla crisi dell’ideologia eroica, un percorso fondato sulla consapevolezza che “la narrazione è una prosecuzione della lotta con altri mezzi”. I neopagani raramente conoscono il greco, e questo è vero anche di tanti che invece nell’epica non vedono che una sequela di maschi ottusi, senza cogliere i fremiti inquieti che percorrono le storie che hanno consegnato il nostro alfabeto immaginativo. Si parte proprio da Lawrence “prima pop star contemporanea” – aratore delle sabbie arabe con lo stesso sguardo mitico con cui nell’800 l’occidente voleva ancora imbrigliare persino le acque del mondo – per poi passare alla resistenza dell’anglosassone Byrhtnoth cui i nemici vichinghi offrono una morte gloriosa e “l’eternità della poesia”, una tentazione che già il filologo J. R. R. Tolkien aveva analizzato come una critica dell’orgoglio autocelebrante. Si risale alla guerra di Troia, ai condottieri greci e al rapporto seducente, elusivo, perturbante col femminile, si raffrontano i giovani pirati di Steinbeck con la loro “ansia di entrare nella leggenda e nella letteratura” e Sam il giardiniere dello stesso Tolkien, con le sua commistione di aspirazioni eroico-comiche e l’alternativa, umile e tenace grandezza che ne emerge progressivamente.

  

La riflessione cede il passo a un racconto sul beffardo Loki, il trickster norreno che guarda di sbieco alle narrazioni mitologiche degli uomini e degli stessi dèi. “Possono levarsi apparentemente al di sopra della miseria umana solo gli uomini che mascherano ai propri occhi il rigore del destino con il soccorso dell’illusione, dell’ebbrezza o del fanatismo. L’uomo che non è protetto dalla corazza di una menzogna non può patire la forza senza restarne colpito fino all’anima”, notava Rachel Besfaloff. Oltre tutti i piedistalli su cui tendiamo continuamente a elevarci o porre altrui, possiamo solo tenerci stretta quella morsa di commozione, farci guidare da essa, e allora combattere, cantando.

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