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Perché con il Covid e la guerra si è rotta pure qualche amicizia

Claudio Cerasa

Siamo diventati più intolleranti perché più consapevoli delle nostre libertà da difendere, e non abbiamo più voglia di discutere con complottisti, negazionisti, antieuropeisti. E quel sorrisino di oggi per la Le Pen, anche basta, grazie

Ormai li riconosciamo e basta un nulla per beccarli e per chiederci: possiamo continuare a essere tolleranti? Ormai li riconosciamo e basta un nulla per beccarli. Basta una parola, basta un tic, basta un’espressione fuori posto, basta un “ma” messo nel posto sbagliato. E anche stamattina, quando registreremo i sorrisini, gli olé, gli evviva, per il risultato di Marine Le Pen, per i numeri di Eric Zemmour, penseremo a quello a cui abbiamo pensato spesso negli ultimi mesi: anche basta, grazie. Il combinato disposto tra pandemia e guerra, negli ultimi due anni, ha avuto un impatto importante sull’amicizia di alcuni tra i grandi paesi del mondo. I paesi dell’occidente si sono avvicinati ulteriormente, le democrazie liberali hanno sperimentato nuovi modi per collaborare e gli stati canaglia si sono spesso trovati nella condizione di dover scegliere da che parte stare nel rapporto con le società aperte. Barack Obama, in una formidabile intervista rilasciata giovedì scorso all’Atlantic, ha detto che l’invasione dell’Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin è stata come uno stress test sulla democrazia mondiale, spesso “flaccida, confusa e incapace”, e sulla capacità di ciascuno stato di reagire all’avanzata dell’autoritarismo. 

 

L’escalation di Putin rappresenta una reazione molto particolare agli ideali della democrazia, della globalizzazione, della contaminazione delle culture e quello che stiamo vedendo oggi in Ucraina da parte dell’occidente è un incoraggiante promemoria per ricordare anche nel futuro tutto ciò che non possiamo permetterci di dimenticare quando parliamo di democrazia e di stato di diritto”.

 

Quello che vale per i rapporti tra gli stati, per i rapporti tra le democrazie, vale in una forma forse ancora più ampia per tutto ciò che riguarda una dimensione della nostra vita poco indagata che coincide con una inconfessabile rivoluzione in corso nella nostra quotidianità: le nostre amicizie.

 

Nel suo famoso saggio sulla tolleranza, Karl Popper scriveva che “la tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. E se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo cioè disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”. In un certo modo si può dire che gli ultimi due anni, prima con la pandemia e poi con la guerra, si sono portati via non solo un numero impressionante di morti ma anche una lunga scia di amicizie improvvisamente interrotte. Amicizie interrotte per discussioni complottiste sui vaccini. Amicizie interrotte per argomentazioni negazioniste sul Covid. Amicizie interrotte per argomentazioni senza senso sul green pass. Amicizie interrotte per quarantene non rispettate. Amicizie interrotte per giustificazionismi putiniani. Amicizie interrotte per insensibilità di troppo mostrate dai nostri vecchi amici verso il massacro in Ucraina.

 

“C’è stato un inasprimento dei nostri circoli sociali – ha detto qualche mese fa al Washington Post la giornalista scientifica Lydia Denworth, autrice di “Friendship: The Evolution, Biology, and Extraordinary Power of Life’s Fundamental Bond” – e la pandemia ha contribuito certamente a creare stress e tensione in ogni relazione”. Denworth ha ammesso che anche nella sua cerchia ristretta in molti hanno chiuso rapporti di amicizia non solo per questioni legate allo stress pandemico, non solo per il modo diverso in cui ciascuno di noi utilizza spazi sociali condivisi, non solo per alcune abitudini cambiate nel tempo, come la nostra pausa pranzo, la nostra passeggiata da casa al lavoro, la nostra frequentazione degli uffici, dei bar, delle palestre, ma anche per questioni infinitamente più personali che ci hanno reso meno tolleranti rispetto ai nostri amici divenuti intolleranti rispetto a tutto ciò che difende le nostre libertà.

 

Sirin Kale, editorialista del Guardian, qualche settimana fa si è chiesta in un editoriale molto raffinato se i nostri amici saranno ancora gli stessi dopo la pandemia (secondo un rapporto dell’University College London, oltre un quinto degli adulti del Regno Unito ha sperimentato una completa rottura della relazione con la famiglia, gli amici, i colleghi o i vicini durante il Covid) e la stessa domanda la si potrebbe porre oggi riguardo a ciò che ha rappresentato per tutti noi il mix tra vita nel Covid e vita nella guerra e riguardo alle origini delle fratture irreparabili con alcuni vecchi amici. Siamo più intolleranti non perché siamo più aggressivi, più incazzati, ma perché siamo forse più consapevoli di quali siano le nostre libertà da difendere, di quanto sia precaria la nostra libertà e di quanto siano diffusi gli idioti incapaci di capire quale sia il confine tra stravaganza e irresponsabilità. E così ci viene naturale non aver più voglia di discutere con chi gioca con il complottismo, con chi brandisce il negazionismo, con chi esulta ogni volta che in giro per l’Europa fa un passo avanti chi per molto tempo ha venduto la sua anima ai nemici della società aperta. Siamo più intolleranti, per fortuna, perché negli ultimi due anni una vecchia e storica e formidabile frase di Piero Calamandrei, “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”, è divenuta parte delle nostre vite e ci ha portato  a vivere senza troppi sensi di colpa all’interno di una bolla dove le nostre amicizie si sono ritrovate  a fare i conti con una scelta simile a quella degli stati descritti da Obama: scegliere cosa difendere, scegliere cosa non tollerare, scegliere da che parte stare e scegliere semplicemente di mettere  la nostra quotidianità al riparo da chi ha scelto di mettere a rischio la nostra libertà. E nella società dell’intolleranza popperiana le nostre amicizie forse non sono peggiori di quelle passate. O no?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.