Troppa psicologia genera mostri: la società paternalistica ha il suo nuovo bonus

Alessandro Dal Lago

L’ossessione per il disagio nella vita quotidiana è arrivata fino al governo con un bonus per coloro che soffrono di “stress”, “ansia”, “depressione”: tutti sintomi di difficile valutazione, generici e puramente evocativi

Anni fa, la società che gestiva una sede distaccata della mia facoltà si accordò con la Asl locale per fornire agli studenti un servizio di “assistenza psicologica”. L’idea era che gli studenti soffrissero di “ansia da prestazione” (accademica, oso sperare…). Due laureate in Psicologia, dotate di specializzazione, erano a disposizione due volte alla settimana per affrontare i problemi studenteschi. Insieme ad alcuni colleghi, mi dichiarai fermamente contrario all’iniziativa, perché discriminava gli studenti in quanto bisognosi di assistenza. Nessuno si sarebbe sognato di offrire un servizio simile al personale amministrativo o ai docenti. Ma la questione si risolse da sola, perché, dopo un mese, neanche uno studente si era presentato al rudimentale consultorio.

Tuttavia, la questione era seria. Dimostrava quanto l’idea di fornire sostegno psicologico alle categorie più svariate di cittadini fosse diventata un luogo comune. L’orientamento al lavoro o alla scelta universitaria è oggi in gran parte psicologico. Le équipe di cura dei malati di cancro prevedono la presenza di psicologi. Nel 2018, quando fui ricoverato in una clinica oncologica, mi fu chiesto se mi interessasse il consulto di uno psicologo. Morivo di curiosità e accettai. Mi aspettavo una chiacchierata sull’angoscia in Heidegger con qualche seguace di Galimberti. Invece, fui ricevuto in un ufficio del sottotetto da un tizio con l’aria annoiata che mi sottopose un questionario. Ricordo la domanda chiave. “In una scala da 0 a 10, da ‘non preoccupato’ a ‘terrorizzato’, come valuterebbe il suo stato d’animo rispetto alla malattia? “Non saprei proprio”, risposi io. “Forse, indifferente è la parola giusta”. “Come è possibile?”, fece lui. “Beh, ho più di settant’anni e sono consapevole di essere mortale. Che dire di più?”. Sono convinto che quello mi abbia creduto un mezzo matto. Il ruolo attivo degli psicologi, dotati di questionari e/o taccuino degli appunti è dilagante. Si estende agli scolari problematici, alle perizie giudiziarie, soprattutto nel caso di reati commessi da o sui minori e così via. Ho in mente, come simbolo di questa penetrazione del senso comune, l’immagine delle psicologhe delle forze armate che sostengono, all’arrivo delle bare, i parenti dei caduti in una missione all’estero.

Il potere dilagante della psicologia è emerso a proposito dei presunti abusi commessi su bambini: in Italia, ci sono stati i casi dei “diavoli della bassa modenese” negli anni Novanta, Bibbiano e prima ancora Rignano Flaminio eccetera, secondo Pablo Trincia, autore del best-seller “Veleno”. Una storia vera, i casi nel mondo di pedofilia immaginaria sarebbero centinaia. Queste vicende sono state oggetto di speculazione politica. Ma qui interessa notare soprattutto quale sia lo sfondo culturale che le ha rese possibili: a parte l’ossessione diffusa per la pedofilia e il satanismo (“giù le mani dai nostri figli!”, eccetera), domina l’idea che nella società covi un malessere diffuso, indicibile, oscuro, bisognoso di essere conosciuto e affrontato con ogni mezzo. E questo può spiegare la fiducia acritica che spesso istituzioni e amministrazioni locali manifestano verso la psicologia. Un risultato abbastanza evidente è sintetizzato dal titolo di un libro di Frank Furedi, “Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana” (Feltrinelli 2008). Ma forse bisognerebbe risalire al grande libro di Thomas S. Szasz, “Il mito della malattia mentale” (Il saggiatore 1966), in cui, tra l’altro, si mostrava quanto fosse comodo per il sistema politico e quello giudiziario attribuire al disagio psichico l’imbarazzo provocato dall’adesione al fascismo di un personaggio come Ezra Pound.

A me sembra che il “bonus” psicologico approvato dal governo Draghi per contrastare gli effetti depressivi del Covid-19 rientri in questa onda lunga e inarrestabile della penetrazione della psicologia di senso comune nella vita quotidiana. Il provvedimento prevede l’erogazione di 10 milioni per coprire le spese di sedute psicoterapeutiche sino a 600 euro, sulla base di 50 euro a seduta (una tariffa troppo bassa, poco plausibile). Ora, poiché – in base a questi dati – il “disagio” causato dal Covid coinvolgerebbe all’incirca 16.000 persone, si tratta di una goccia nel mare, di una misura pannicello caldo o tiepido che permetterà solo a qualche tizia o tizio sprofondati nella solitudine o nella noia di raccontare, per dodici sedute, i fatti propri a un altro tizio seduto alla scrivania dietro di loro. Tutto questo, a parte l’esiguità della tariffa, fa Upper West Side o film di Woody Allen, ma molto meno sostegno a chi soffre di disagio psichico.

Ma poi questo chi lo definisce? Leggendo le parole di chi ha proposto il provvedimento si trovano “stress”, “ansia”, “depressione” eccetera, tutti sintomi di difficile valutazione, generici, puramente evocativi – qualcosa di cui chiunque, a partire dal sottoscritto, potrebbe fregiarsi (ogni mattina mi sveglio soffocato da ansia e stress, ma poi mi passa). Ma ciò autorizza misure più o meno simboliche di cura della psiche? I dati al riguardo mancano o non sono aggiornati, ma per il momento non sono catastrofici: il numero dei suicidi non sembra essere troppo aumentato, tra il 2020 e oggi, e gli altri dati sono troppo aleatori. Eppure, associazioni, giornalisti, politici parlano con disinvoltura di aumento del disagio, del dilagare di depressione e stress. Di una cosa, però, siamo sicuri. In Italia, gli psicologi sono 100.000 – uno ogni 600 abitanti –, e 50.000 sono psicoterapeuti autorizzati. Un’enormità che mette l’Italia al primo posto nella classifica europea. Se vado alla finestra e osservo i passanti per un’ora sono sicuro che alla fine avrò visto una decina di psicologi o psicologhe e cinque o sei terapeuti.

Tutto questo rende onore alla capacità imprenditoriale delle associazioni di categoria e alle facoltà di Psicologia, ma è abbastanza inquietante. Il dilagare di preoccupazioni per lo stress da Dad, per la violenza a cui i nostri giovani si abbandonerebbero perché privi di punti di riferimento scolastici, per le diffuse crisi esistenziali al tempo del Covid e così via cela a malapena un’idea di società paternalistica, terapeutica, medico-politica, che ha sostituito, o integrato, la somministrazione delle pillole con l’ “ascolto”.

Finisco con una storia vera. Una ventina d’anni fa mi trovavo a Buenos Aires a un seminario universitario sulle dittature. Girando per la città mi aveva sorpreso il numero di avvisi pubblicitari di psicanalisti e psicoterapeuti appesi agli alberi dei quartieri residenziali (“Problemi mentali? Rivolgetevi al Dr.  XY…”, “Vi sentite a disagio con gli altri? Consultate il Dr…”). Si sa che l’Argentina è uno dei paesi più psicanalizzati del mondo. Gli studenti mi spiegarono che un paese come il loro, abitato da ondate di immigrati, soprattutto spagnoli e italiani, era intriso di malinconia per le patrie originarie, e quindi la psicanalisi serviva a curare questa fragilità costitutiva. Ho discusso con loro per un bel po’. Ero sconcertato dal fatto che più o meno tutti si dichiarassero peronisti, ancorché di sinistra, e che tutti fossero in qualche tipo di terapia. Alla fine, ho tirato fuori un argomento che a me sembrava conclusivo. “Ci sarà pure una correlazione tra la vostra inclinazione alla psicoanalisi e la frequenza delle dittature di destra in Argentina?”. Si devono essere offesi perché per un po’ non mi hanno più rivolto la parola.

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