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Dentro le linee guida dell'Ue: ecco tutti i tic della lingua europea

Nicola Pedrazzi

Negazione delle identità e altri feticci. La fragilità del linguaggi inclusivo, a partire dalle gaffe natalizie

Ho fatto l’errore di leggere, davvero e integralmente, #UnionofEquality: le linee guida che la Commissione europea ha diramato (e poi temporaneamente ritirato) per raccomandare ai suoi funzionari una comunicazione inclusiva. Il dispiacere che ha accompagnato la lettura è superiore all’angoscia che mette la fruizione delle polemiche che seguono a queste pubblicazioni che nessuno legge. A ben vedere il giro è sempre lo stesso: mischiando i propri valori alle paure che la comunicazione permanente dei social network impone (l’habitat intellettuale e politico dentro al quale viviamo è ai confini della paranoia), le istituzioni internazionali elaborano linee guida simili a quelle delle piattaforme stesse, i giornali nazionali che credono di arginare la perdita di lettori con il clickbait costruiscono un titolo incendiario – “L’Unione europea abolisce il Natale” –, la destra sovranista insorge con dei meme, e infine, per noi del ceto medio riflessivo italiano, arriva puntuale l’articolo del Post che ci tranquillizza sul fatto che no, quei meme sono una fake news, l’Unione europea non ce l’ha con il Natale, lavora a una società in cui tutti possano essere trattati allo stesso modo ma la destra è becera e questa società non la vuole: purtroppo è talmente potente da ottenere persino la ritirata del documento. In questo perfetto giro della bolla dei giusti il merito della questione – ovvero quello che è scritto nel vademecum, le ipotesi sul perché la Commissione ha pensato fosse una buona idea scriverlo così, le considerazioni su se sia o non sia utile ai suoi fini – non hanno alcuno spazio.

Senza mettere in dubbio le bontà delle intenzioni – cosa che sarebbe legittimo fare, ma io sono un ingenuo europeista e penso che l’Ue sia “buona” –, vorrei provare a condividere l’ipotesi che quel documento sia sbagliato nelle premesse e dannoso nei risultati applicativi. Certo non perché in una tabella di pagina 19 suggerisca di sostituire “Christmas” con “Holiday” nelle frasi che si pronunciano in pubblico, ma per l’impianto filosofico di fondo che attraversa tutta la proposta, peraltro con grande coerenza in ogni passaggio logico (un fatto che mi rende inspiegabile perché sia stato ritirato: il documento è fatto molto bene, se quella è l’impostazione ideologica della Commissione nulla è da migliorare).  Mi limito a indicare tre problemi, di natura generale.

Uguaglianza e non disciminazione

Il primo riguarda la tensione malissimo risolta tra i due obiettivi del documento: l’uguaglianza e la non discriminazione. Come le costituzioni liberali e i trattati europei ci insegnano, per riconoscere l’uguale dignità dell’altro ho bisogno di avvertire l’altro da me: certo senza dedurre da questa distinzione che l’altro sia meno importante, ma proprio per tutelare questa deriva della mia capacità discriminante non posso negare o comprimere la mia stessa diversità. Qualora la mia diversità consista nel fatto che io ti vedo maschio mentre tu ti senti non binario, la repressione di quello che vedo non è rispetto verso la tua esistenza, è autocensura di una mia categoria. Il rispetto e la pacificazione si ottengono quando a seguito del fatto che ci incontriamo capisco che le mie categorie rispondono in larga parte a una mia visione del mondo, che per te è importante essere diverso da come ti vedo io; quando liberamente imparo a superare me stesso, e quando altrettanto liberamente chi mi incontra accetta anche i miei limiti e difetti (qui siamo tra colleghi della Commissione europea, dunque almeno in quel contesto non è irrealistico auspicare questo livello di relazione e di rispetto).

Per le stesse ragioni, dire “Buon Natale” e non “buone vacanze” a un collega che si incrocia per le scale il 24 dicembre significa esprimere se stessi, non significa presumere che l’altro sia un cristiano cattolico o riformato, non significa presumere che l’altro lo debba essere, a ben vedere non conferma nemmeno che chi ha detto “Buon Natale” sia cristiano, perché siamo fatti anche di inconscio culturale, e questo non ha sempre conseguenze deleterie o repressive sugli altri. Lo stesso ovviamente vale per eventuali colleghi musulmani: se in prossimità del Bairam il mio vicino di casa mi augura una qualsiasi cosa che per me non conta, non mi sta islamizzando, non sta comprimendo parte di me, sta esprimendo parte di lui. E per fortuna, perché è proprio nel momento in cui si sentirà libero di farlo che impareremo a vivere insieme. Davvero chi ha scritto il vademecum non ha idea di che cosa sia l’ecumenismo, ed è terrificante che lavori per un’istituzione che nasce come ecumene politica.

Maggioranza e minoranza

Il secondo problema ha a che fare con il cruciale rapporto tra maggioranza e minoranza, fondamentale per un’istituzione come l’Ue, che è programmaticamente democratica e programmaticamente “unita nella diversità”. Il documento della Commissione colpevolizza l’esistenza della maggioranza, come se il concetto di maggioranza non custodisse uno dei criteri della democrazia, ma il potenziale di ogni discriminazione; come se la premessa per la tutela delle minoranze non fosse il sapersi maggioranza, ma il rifiuto di esserlo. Raccomandare in un vedemecum delle Nazioni Unite di non presumere che la maggior parte dei colleghi siano cristiani può avere un senso, perché nel mondo non è così. Scriverlo in un documento dell’Unione europea ne assume un altro, perché sul nostro continente vivono mezzo miliardo di cristiani, ed è storicamente inevitabile che tra i cittadini europei gli auguri di Natale siano più frequenti: cosa che non ha niente a che vedere con l’indispensabile laicità delle istituzioni. Se questa è dittatura della maggioranza, è dittatura della maggioranza il numero di chiese e campanili del Belgio, è dittatura della maggioranza che il 25 dicembre la Commissione non lavori, è dittatura della maggioranza il calendario gregoriano, che non per niente porta il nome di un papa, e che è in vigore in quasi tutti i paesi del mondo, anche in quelli che adottano altri calendari. Difettando di tanta cultura ma non di coerenza e consequenzialità, i sostenitori del vademecum risponderanno facilmente che sì, è esatto, tutto questo è potere e va denunciato, combattuto, sovvertito, a cominciare dalle parole che usiamo. Purtroppo però tutto questo è storia degli esseri umani, fuori dalla quale non esiste guerra ma non esiste pace, non esiste oscurantismo ma non esiste illuminismo, non esiste tragedia ma non esiste arte, fuori dalla quale non esistono i diritti umani, che tante radici affondano nelle stesse religioni che hanno devastato il mondo. Purtroppo il mondo è un posto complesso, a prescindere dalle parole che ci imponiamo di usare per raccontarlo, che però possono avere un grande peso sulla nostra capacità di governarlo per il bene comune.
Le tabelle che traducono in esempi pratici i principi teorici sono raccapriccianti proprio per questo, perché è scendendo sul pratico della comunicazione che emerge come la proposta ignori le modalità con cui gli esseri umani giungono a concordia. A chi vuole seguirlo, il vademecum impone di polverizzare l’umanità in decine di categorie, e subito dopo intima di ignorare quelle distinzioni. In questo penitenziale “Vedile! - Non vederle!” si perde ogni autonoma capacità di discernimento delle differenze e ogni pluralità di percorso cognitivo. In definitiva si perde, giusto per fare un esempio di cui tutti i fortunati hanno fatto esperienza, la possibilità di provare empatia per un portatore di handicap, perché avvicinarlo alla luce della sua condizione svantaggiata non è più un risultato di solidarietà civile (magari animato da percorsi intellettuali e emotivi non per forza completamente luminosi o benefici, come la pietà), ma un bias culturale che mi impedisce di vedere che è uguale a me. Una discriminazione.

L’inapplicabilità al reale

Il peccato più grave del vademecum sta proprio qui, nella sua oggettiva inapplicabilità al reale che pretenderebbe di migliorare e nelle conseguenze deleterie che la sua inapplicabilità pratica si porta dietro. Quand’anche un qualche monaco del linguaggio volesse vivere e parlare agli altri seguendo pedissequamente tutte le regole del documento, finirebbe per ghettizzarsi in un mondo esatto e indistinto, disumano perché aculturale; un mondo a cui i non adepti potranno facilmente contrapporre un modello caotico e razzista, nel nome – e il paradosso è completo – dell’umanità e della cultura. E’ d’altronde questo il pianeta cucinato dalle piattaforme dell’anglosfera, nuovi poteri globali che avendo come unico obiettivo etico il profitto non provano alcun imbarazzo a lanciare Donald Trump mentre dettano codici deontologici alle istituzioni democratiche. Che il bigottismo da libro cuore che nel dopoguerra avevamo cacciato fuori dalla porta rientri dalla finestra travestito da tutela delle minoranze è triste e un po’ ridicolo. Che la Commissione europea, nata per la pace dalla concretissima “solidarietà di fatto” della dichiarazione Schumann, oggi promuova tra i suoi lavoratori una solidarietà inapplicabile, è grave e pericoloso.

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