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L'autodafé veste Prada

Giulio Meotti

La grande casa di moda si prostra alla “polizia del fashion”. E l’antirazzismo da kommissione finisce in vetrina

Roma. In principio fu Guido Barilla. Il patron della pasta aveva detto alla radio di credere solo alla “famiglia tradizionale”. Al rogo in effigie dei suoi pacchi blu di pasta seguì l’annuncio dell’azienda: “Diversità, inclusione e uguaglianza sono parte integrante del nostro codice etico”. Barilla avrebbe creato un “Board per la diversità” che avrebbe vigilato sulla promozione di politiche “inclusive”; un “Ufficiale per la diversità” supervisore delle discriminazioni e la partecipazione al “Corporate Equality Index”, che misura l’“indice di inclusività” di un’azienda.

 

 

Ora tocca a Prada. Chinyere Ezie, avvocato dei diritti civili, aveva postato l’immagine di un negozio Prada a New York con i “Pradamalia”, pupazzetti da cinquecento dollari cadauno. Uno ha le sembianze di scimmia. Dopo le accuse di razzismo, Prada si cosparge di cenere e ritira i gadget. Ma non tutti sono soddisfatti. La commissione per i Diritti umani di New York, autorità giudiziaria incaricata di sovrintendere alle leggi sui diritti che si applicano alle attività cittadine, entra in trattative con Prada. L’accordo è stato firmato il 4 febbraio. Il colosso della moda si impegna ad avviare una rieducazione interna e a sottoporsi a un monitoraggio esterno per due anni. Prada è “grata di essere stata in grado di collaborare con la Commissione per i diritti della città di New York”. Chi non vorrebbe che tutto questo scomparisse in fretta? Ma l’accordo invia un segnale senza precedenti su come la “giustizia sociale” influenzi le aziende.

 

William Kovacic, già commissario della Federal Trade Commission e professore della George Washington University Law School, dice al New York Times che in gioco c’è la libertà di parola: “Oggi un indumento, domani un dipinto?”. Prada ha annunciato l’istituzione di un “Consiglio sulla diversità e l’inclusione”, presieduto dalla regista Ava DuVernay. L’accordo impone a Prada un corso di “formazione sulla sensibilità” ai dipendenti entro centoventi giorni dall’accordo. Prada nomina anche un “responsabile della diversità e dell’inclusione” che si occupa anche della “revisione dei progetti di Prada prima che vengano venduti e pubblicizzati negli Stati Uniti”. L’accordo, infine, chiede a Prada di fornire alla commissione “un rapporto sulla composizione demografica del personale Prada” e “prove del fatto che ha compiuto passi significativi per aumentare il numero di persone appartenenti a classi sottorappresentate nell’industria della moda, comprese le persone di colore”.

 

 

Il Wall Street Journal ha pubblicato un editoriale su “Prada e la nuova polizia della moda”: “Fatti più in là, Anna Wintour, i regolatori di New York ora hanno l’ultima parola su ciò che costituisce un passo falso nella moda”. I dirigenti Prada sanno che, nel caso incespichino nella strada senza vie d’uscita della “diversità”, finiranno come l’ad di Mozilla, Brendan Eich, costretto a dimettersi per una donazione al referendum californiano contro le nozze gay. E’ l’avvento del “mercato etico”. Iniziammo con il burro danese boicottato per le vignette su Maometto nei supermercati della mezzaluna. Al tempo, solo spallucce islamofile. E si è finiti con il decidere cosa finisce nelle boutique dell’Upper West Side e di Via Montenapoleone. Più che fashion, follia.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.