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Se non fai professione di “diversità”, le università americane non ti assumono

Giulio Meotti

Scandalo nella Berkeley del gran rifiuto di Kantorowicz che pur anticomunista si rifiutò di fare giuramento di anticomunismo perché aveva in orrore un simile giogo intellettuale

Roma. Volontario nella Prima guerra mondiale, nazionalista arruolatosi nei Freikorps di estrema destra, anticomunista e studioso del più grande degli imperatori tedeschi medievali Federico II di Svevia, lo storico Ernst Kantorowicz non ebbe altra scelta che lasciare la Germania nazista nell’annus horribilis 1939. Non bastava che la sua grande biografia sull’imperatore fosse piaciuta a Goebbels. Kantorowicz era ebreo e doveva andarsene. Arrivò negli Stati Uniti, dove ottenne la cattedra di Storia medievale a Berkeley. Dieci anni dopo, in piena temperie maccartista, l’amministrazione universitaria impose ai docenti di fare giuramento di anticomunismo. Kantorowicz si rifiutò di sottoscriverlo nonostante il proprio anticomunismo, perché aveva in orrore un simile giogo intellettuale. Fu così licenziato e trovò lavoro a Princeton grazie all’intercessione del grande fisico Robert Oppenheimer. Settant’anni dopo, i docenti di Berkeley si trovano alle prese con un altro tipo di giuramento, la diversity, questa potente ideologia egemonica costruita per far rispettare tutti i canoni e i crismi del nuovo antirazzismo.

  

Un’inchiesta di Reason, il magazine libertario, rivela che “l’Università della California ha richiesto ai potenziali membri di facoltà di affermare di sostenere la ‘diversità’. Ricorda il giuramento degli anni 50, che chiedeva che i docenti attestassero di non essere membri del Partito comunista. In un campus, Berkeley, l’Iniziativa per la ‘diversità’ è andata molto più in là di quanto non si pensasse. Nessun candidato che non supera il test può essere preso in considerazione per l’assunzione”. Un rapporto sull’Iniziativa per la diversità di Berkeley – diffuso dal biologo Jerry Coyne – mostra che otto diversi dipartimenti hanno utilizzato la “diversità” per eliminare i candidati. Un gruppo di 894 candidati è stato ridotto a 214 in base unicamente a quanto fossero convincenti nella propria domanda di lavoro sulla ‘diffusione della diversità’”. In pratica, se chi fa domanda di un posto non fa cenno alla diversità viene automaticamente scartato, per quanto brillante possa essere il suo curriculum. “Berkeley ha respinto il 76 per cento dei candidati qualificati senza nemmeno considerare le loro capacità didattiche, la loro pubblicazione, il loro potenziale di eccellenza accademica o la loro capacità di contribuire”, scrive Reason. “Questi candidati avrebbero potuto essere il prossimo Albert Einstein o Jonas Salk, oppure educatori eccezionali e innovativi”. Non importa, la diversità prima di tutto.

 

Sul Wall Street Journal, Abigail Thompson del dipartimento di matematica dell’Università della California ha denunciato quanto avviene a Berkeley: “Sono stata invitata a presentare un saggio ai ‘Notices’ dell’American Mathematical Society, la rivista di matematica più letta. Ho espresso il mio parere secondo cui queste dichiarazioni sono diventate una cartina di tornasole politica e che ci dovrebbe preoccupare tutti”. Sui social, le idee di Thompson sono state definite disgustose, hanno condannato l’American Mathematical Society per aver pubblicato il suo saggio, i professori sono stati esortati ad allontanare i loro studenti dalla facoltà di Thompson e a contattare l’università per mettere in discussione la sua idoneità come presidente del dipartimento di Matematica.

    

Kantorowicz aveva visto in Germania quel che capitava quando si cominciava a imporre giuramenti ai professori. E per spiegare il suo rifiuto di firmare a costo di perdere il lavoro, lo storico disse: “Ci sono tre professioni che hanno il diritto di portare la toga e sono il giudice, il prete e il professore. Quest’abito attesta la maturità mentale di chi lo porta, la sua indipendenza di giudizio e la sua diretta responsabilità verso la sua coscienza e il suo dio. Sono le ultime professioni che dovrebbero accettare di agire sotto costrizione”. Che tempi.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.