Turisti a Venezia (foto LaPresse)

Che grande nave la modernità

Maurizio Crippa

Il turismo globale? E’ la sfida del futuro, ma si può vincere. A patto di cambiare le idee prima ancora che le rotte. Venezia è la perfetta metafora di un’Italia che non sa decidere. Vie di fuga

“Disse allora il traghettatore: non sostiamo, potremmo sprofondare. Le isole non sono che sogno vano, non sono terraferma a cui approdare”. (Herman Melville, “Le isole incantate”)

 

Il flusso dei visitatori è un problema globale, non solo nelle città d’arte. L’errore di dividere i turisti in “etici” e zozzoni da crociera

Anche le montagne, sogni altrettanto vani, non sono luoghi fatti per sostare: potrebbe sprofondare il Pianeta, prima o poi. Settimane fa per la cima dell’Everest c’era una coda come fosse Black Friday a un discount. La Francia da quest’anno ha imposto il numero chiuso per salire dal suo versante sul Mont Blanc. Le Cinque Terre sono più basse ma sui sentieri ora ci sono controlli, si potrà accedere pochi alla volta e con divieto di infradito. Molti scenari da Instagram e patrimoni dell’umanità stanno ergendo difese contro l’assalto dei turisti. Perché mai navi alte come torri e pesanti come palazzi dovrebbero fare passerella lungo la Giudecca? Il turismo globale è uno dei business più prosperi e in crescita, quasi un miliardo di spostamenti internazionali l’anno e un miliardo e mezzo di dollari, indotto escluso, nei dati Wto 2015. Quello locale vale almeno cinque volte tanto. E’ un motivo per averne paura, per chiudere i porti? Impensabile. Non è soltanto un problema di Venezia ma di tutti i luoghi d’arte, dalle Piramidi al Mont Saint-Michel. Di città come Firenze, Roma, Amsterdam o Barcellona. Però Venezia è la regina delle città d’arte, o la capitale del “selfie del mondo”, per usare il titolo di un libro intelligente di Marco D’Eramo. Antonio Paolucci, ministro dei Beni culturali, sovrintendente degli Uffizi e poi direttore dei Musei Vaticani, da anni lancia l’allarme sul “turismo dei grandi numeri” e il numero chiuso: “Non si potrà fare altrimenti. Ci sono diversi luoghi e spazi, in Italia, che sono di fatto attrattori enormi, attirano fiumane di persone in arrivo da tutto il mondo. Al crescere di queste fiumane, a un certo punto bisognerà necessariamente porre dei limiti: e allora verranno attivati dei contapersone, e quando le persone saranno troppe, dei numeri chiusi”. E’ stato tra i primi a parlare del necessario “controllo climatologico” (i nostri fiati) della Sistina. Agli Scrovegni a Padova, cappella ben più piccola, si entra pochi minuti e dopo aver sostato in una specie di camera iperbarica.

 

Il turismo globale è un problema di sostenibilità ovunque. Nelle città d’arte non è che sia più acuto, è che si intreccia con interpretazioni sbagliate. Ad esempio che la soluzione sia separare il turismo colto, anzi ormai è invalsa la parola “etico”. Il professor Corrado Del Bò, che insegna a Milano Filosofia del diritto (per dire l’incrocio dei saperi) ha scritto un libro dal titolo “Etica del turismo. Responsabilità, sostenibilità, equità” che è una summa di tutto ciò che c’è da sapere per essere buoni turisti, diversi dagli zozzoni mordi e fuggi, che a loro volta si dividono in ricchi e in low cost. Ma sempre fonte del male sono da considerare. Ma basta guardare i numeri. A Venezia giungono ogni anno 18 milioni di turisti. Alla Biennale, che è un grande successo anche di visitatori, in pochi anni sono passati al 180 mila a 600 mila. Venezia – o Barcellona, o Parigi – possono veramente dire addio alla stragrande maggioranza dei loro ospiti? La risposta non può essere quella. Senza contare che, curiosamente, i “no tutto” che di solito stanno col popolo, in questo caso sono a favore del turismo d’élite: a quando lo sdoganmento in chiave etica del Gran Tour riservato agli aristocratici? Quando Luca Zaia, governatore, o Luigi Brugnaro, sindaco, insistono che va trovata una via d’acqua diversa per le grandi navi ma che non bisogna perdere il business delle crociere, dicono l’evidenza. Il resto è ideologia.

 

Per l’economista Stefano Micelli l’alternativa alla “monocultura” del turismo è essere “l’epicentro mondiale della contemporaneità”

Venezia non va chiusa, ma deve cambiare modello. Cioè va cambiato pensiero, prima ancora che metodo decisionale, che è carente come nel resto del paese, ma qui complicato dalla presenza del mare (un tempo il Magistrato delle Acque comandava quanto il doge, ma non è più quel tempo). Incominciare a pensare che la modernità, compresa la globalizzazione, non è il male ma occasione da affrontare. In questo, la Serenissima è un limpidissimo specchio del paese. Si dovrebbe cominciare a ricordare, come suggerisce Ottavio Di Brizzi, direttore editoriale di Marsilio, da sempre un pensatoio in Laguna, che Venezia non è così fragile come si dice, anzi è resiliente e propulsiva e il suo destino è sempre stato di forza ed economia creatrice. Basti l’esempio dell’Arsenale: è stato per secoli una delle fabbriche più grandi del mondo, nel bel mezzo della Rivoluzione industriale.

 

Ed è qui, in questo preciso luogo, che viene in aiuto il pensiero ampio, per nulla spaventato dalla contemporaneità, di Paolo Baratta, presidente della Biennale, che nel corso degli anni ha non solo recuperato ma trasformato in una nuova vocazione produttiva gli spazi della gran fabbrica delle navi. Al telefono col Foglio, Baratta riflette su orizzonti che partono dalla Laguna ma prendono subito il largo: “Per prima cosa, servirebbero risorse e studi di tipo statistico per definire in modo più preciso il fenomeno del turismo. Questo aiuterebbe ad allontanare le parole utopiche come ‘violenza’, ‘catastrofe’ che sono purtroppo nel linguaggio comune su Venezia. Io faccio parte di coloro che pensano che invece Venezia sia parte dell’utopia della modernità, è stata fulcro della modernità anche nell’Ottocento e oltre. La seconda cosa, e fa parte del lavoro che abbiamo realizzato – non solo noi ma anche altre istituzioni della cultura – è pensare che Venezia, con tutte le sue unicità, non può essere un ‘problema’ locale. Un oggetto da chiudere e da difendere, perché da sola non potrebbe mai salvarsi. La sua vocazione è internazionale, è creare una rete di rapporti e conoscenze internazionali, come è stato per la Biennale. Siamo il luogo ideale di scambio e di relazione. E di ideazione del futuro attraverso l’arte, l’architettura. Se c’è un’indicazione che Venezia può dare, è in questa apertura. Poi ovviamente ci sono ambiti e competenze. Su come regolare e trasformare in un modello aperto il resto della città, il commercio, il grande turismo che non viene per la Biennale ma per ‘vedere le pietre’ della città servono la politica, le decisioni strutturali. Un sistema decisionale che spesso manca”.

  

Per Paolo Baratta, presidente della Biennale, Venezia è il luogo ideale di scambio e relazione internazionale. L’esempio Arsenale

C’è però chi sostiene che il problema unico di Venezia sia la tutela, la difesa, il non toccare nulla. Si rischia di trasformarla davvero in un museo? “Abbiamo una grande dottrina dei beni culturali e della conservazione – risponde Baratta – Ma non può essere soltanto questo, deve essere anche una dottrina della trasformazione e del riuso degli spazi e della città, e questo vale per Roma, per Firenze, per Parigi. L’Arsenale è stato conservato: ma anche trasformato e riutilizzato. Un esempio nel mondo. E la stessa laguna è un organismo in movimento, che si trasforma in continuazione ed è stato modificato. Questo è il pensiero che dobbiamo avere. Ovvio che bisogna evitare che i centri storici si trasformino in luoghi di solo turismo. Ma io sono il testimonial che un riuso aperto alla modernità è possibile. Venezia è una città che produce, non ha mai smesso. Facciamo arte, cultura, progettazione. non ci limitiamo a esporre in una vetrina. Le nostre istituzioni devo essere all’altezza di questa responsabilità”.

  

Ed è a questo punto, abbandonato il complesso industriale dell’Arsenale che produceva grandi navi e oggi produce cultura innovativa e relazioni e internazionalizzazione, che Venezia smette di essere il problema dei turisti e diventa la più evidente metafora dell’Italia del suo difficile rapporto con la modernità e la capacità di indirizzo della politica. Bisogna togliersi dagli occhi le grandi navi. Faccenda presto risolta (si scherza, ma nemmeno tanto) a patto di non trasformarla in un incubo. Perché è colpa di cattiva gestione tecnico-politica e di ritardo (italiano) nelle decisioni. Idee e tecnologie esistono. Esistono più di dieci proposte per limitare o impedire l’ingresso nel centro storico delle grandi navi. La più razionale sarebbe quella di costruire un nuovo terminal a Marghera, che è sempre in laguna, ma con accesso da una rotta differente. Ci vogliono anni e costa molto. Piaceva anche all’Unesco, ma per ora è acqua passata. Poi c’è la soluzione più di compromesso approvata dal Comitatone e sostenuta dal sindaco Brugnaro e dal governatore Zaia: utilizzare il canale Vittorio Emanuele adeguatamente sistemato per far raggiungere la Stazione Marittima attuale. Ma non piace ai comitati variamente No Nav, i quali adesso stanno (provvisoriamente) al governo. E infatti il ministro Danilo Toninelli da un anno tiene fermo il piano che darebbe il via ai lavori. Quei furboni dei Cinque stelle hanno suggerito al ministro l’idea di costruire un porto ex novo a Chioggia, dove (provvisoriamente) hanno il sindaco. E’ la proposta più costosa, irrazionale e pericolosa per l’ambiente tra tutte quelle fatte. Bocciata da tutti. Ma è anche vero che il problema grandi navi a Venezia è sempre stato politico, il colore dei governi c’entra relativamente poco. Molto italiano.

 

Così Venezia diventa la metafora di un cattivo rapporto con la modernità, la trasformazione, le decisioni. Storia di decenni. Alcuni anni fa Cesare De Michelis, genius loci della laguna e fondatore di Marsilio, scrisse un’introduzione volutamente provocatoria a un libro dal titolo “Venezia - Un’invisibile battaglia navale” in cui dava per assodato “che Venezia nel tempo della modernità si sia rivelata come un ‘problema’” e che dai primi anni Sessanta i veneziani “senza pause e senza apprezzabili risultati” si sono divisi “tra innovatori e conservatori, mentre il centro storico perdeva progressivamente residenti e attività e ogni progetto per invertire la tendenza si mostrava inefficace”. Le grandi navi sono, in ordine cronologico, solo l’ultimo e più spettacolare dei problemi. Il pensiero di De Michelis, anche liberato dalle polemiche, è esattamente il contrario di quello dominante in Italia, riassunto da Salvatore Settis nel suo celebre pamphlet su Venezia, una sorta di libretto di Mao di tutti gli anti tutto: “Le città storiche sono insidiate dalla resa a una falsa modernità, dallo spopolamento, dall’oblio di sé”. Ma nel caso di Venezia, non c’è nulla di più evidente che “l’oblio di sé” è proprio dimenticare la sua anima produttiva e trasformativa. Perfino dal punto di vista ambientale, è chiaro a tutti che il problema della laguna non è conservativo, ma di intervenire spesso, tanto, e bene. Serve scienza, non etica del paesaggio. E come già suggerisce qualche ambientalista avveduto, un giorno per salvare la laguna potrebbero addirittura servire le dighe: non il Mose, proprio le dighe.

 

Il cattivo rapporto, tutto italiano, con il moderno. La differenza tra conservazione, riuso, trasformazione. Nuove rotte

Sull’altra sponda del Canal Grande, il professor Stefano Micelli, che insegna Economia a Ca’ Foscari e si occupa di aspetti legati allo sviluppo e all’innovazione del territorio, ci aiuta ad uscire dal vicolo cieco del turismo e a mettere al centro il tema – anche questo non solo veneziano – della contemporaneità. Venezia, dice, “è tutt’altro che immobile e da tutelare come un museo”. E’ da molto tempo – grazie a università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e fondazioni private – “uno degli epicentri mondiali della riflessione sulla contemporaneità. Oggi chiunque produca, dai mobili alla moda, al food, sa che non basta più ‘produrre’, ha bisogno di modelli di sperimentazione, di elaborazioni culturali, di studi. Di domandarsi: come sarà il futuro? Venezia, anche se spesso non viene notato, è diventata in molti campi un laboratorio di tutto questo”. Micelli cita, come esempio, il Progetto Homo Faber realizzato lo scorso anno alla Fondazione Cini dalla Michelangelo Foundation e dedicato alla innovazione in tutti i saperi dell’arte, che ha attratto un’attenzione mondiale. “Venezia oggi deve essere anche questo, ma per farlo dovrebbe imparare a legarsi al suo territorio produttivo, al Nordest, un passo che non è ancora riuscito, e qui serve uno scatto di consapevolezza da parte dei decisori politici, bisogna uscire dall’ambito locale”. Solo così, ragiona il professore, si può salvare Venezia, portandola nella contemporaneità e non chiudendola: “Creare un altro tipo di sviluppo economico è l’unico modo per contrapporsi alla ‘monocoltura’ del turismo di massa. Attenzione, non bisogna essere contro il turismo: ma è chiaro che con i numeri del turismo globale è necessario governare i flussi e renderli sostenibili. Ma un modo, è esattamente non dipendere soltanto da quello”.

 

Perché altrimenti, inizia a sussurrare qualche veneziano con uso di mondo, la rotta alternativa per le grandi navi rischia di arrivare da sola: ma si chiamerà Via della Seta. Immagina, suggeriscono, se la Cina entrasse davvero in possesso del porto di Trieste: un giorno le grandi navi potrebbero attraccare là, senza più disturbare la laguna e aspettare i ministri, e un treno ad alta velocità porterebbe poi i turisti in un baleno a Santa Lucia: il tempo di offrire un’ombra de vin. E’ solo un’ipotesi paradossale, ma se si ha paura della modernità e delle decisioni, e si ha come unico scopo bloccare a mani nude le grandi navi, il rischio è che la contemporaneità poi arrivi da sola, da una rotta imprevista. E al ministro Toninelli potrebbe anche scappare detto: ma tanto, chi ci vuole andare a Venezia?

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"