Luke Perry (foto LaPresse)

Luke Perry ci ha dato un motivo per essere bionde, ma anche per essere more

Simonetta Sciandivasci

Il bello e dannato di “Beverly Hills 90210”, cioè gli anni 90

Le madri assennate e giudiziose, negli anni Novanta, alle ragazze proibivano due cose: “Non è la Rai” e “Beverly Hills 90210”. Non serviva a niente, naturalmente. Sognavamo lo stesso di diventare Ambra Angiolini e di sposare Luke Perry. Lei è diventata rispettabile. Lui è morto oggi, a 52 anni, per un ictus, e noi e le nostre amiche ci siamo scritte, telefonate, raggiunte, riviste, ripensate, per dirci che ora sì che siamo adulte, e anzi vecchie, e cosa resterà degli anni Novanta, e dannazione che generazione iellata che siamo, né carne né pesce, né analogici né digitali, né maledetti né sani, una vita da mediani.

 

Lo schema è chiaro: quelli prima di noi hanno visto morire i loro idoli troppo presto, quelli dopo di noi non li vedranno morire mai visto quanto sono sani e composti, noialtri li vedremo morire nel fiore della mezza età, per malattia, per depressione, per tutte e due le cose. L’anno scorso è morta Dolores O’ Riordan dei Cranberries, l’anno prima erano morti Chris Cornell e Chester Bennington, e degli anni Novanta, dei nostri anni Novanta, ci si sono frantumati davanti agli occhi i primi “non mi sta bene” che dicemmo al mondo, la prima consapevolezza che avemmo del fatto che la storia non sarebbe finita affatto.

 

Con Luke Perry ci si sono frantumati davanti agli occhi i sogni di amare un debosciato, cosa che negli anni Novanta era ancora possibile e anche desiderabile. Perry è morto poche ore dopo Keith Flint, un altro che degli anni Novanta è stato una delle nostre figurine più amate e pure spaventose e divertenti. Perry era Dylan, non Luke Perry. Dylan di “Beverly Hills 90210”, un adolescente con un sacco di guai, un padre che gliene riversava addosso altri non appena lui se ne tirava fuori, un indeciso, un affamato, un impossibile, un forte molto fragile, eternamente diviso tra Brenda e Kelly, una mora e una bionda, che gli giravano intorno come tutto il resto dell’occidente giovane, cambiando continuamente: una alla volta e a fasi alterne sono state, per amarlo o dimenticarlo, femministe, progressiste, repubblicane, democratiche, frivole, impegnate, vuote, cretine, fortunate, sfortunate, studiose, svogliate, educate, maleducate. Tutto. E lui in mezzo. E noi, da casa, ricevevamo quello che nessun altro uomo ci darà mai e cioè tanto una buona ragione per essere bionde quanto una buona ragione per essere more; milioni di motivi per fidarci dei cattivi ragazzi con il giubbotto di pelle (che negli anni Novanta non erano roba per fluid, ma per figurini che a un certo punto ti convincevano a smetterla con le boy band e quando tu ti lagnavi perché tuo padre non ti voleva portare a vedere le Spice Girls ti dicevano che aveva ragione e quindi tu cominciavi a vedere di buon occhio anche tuo padre); milioni di motivi per caracollare sempre tra le braccia di uno con la moto (rubata, ereditata, comprata con i soldi dello spaccio: non aveva importanza).

 

Guarda, Luke, ti abbiamo amato moltissimo. Intossicato, tossico, buono, innocuo com’eri. Grazie per averci dato un’adolescenza turbolenta lasciandoci stare sedute sul divano. Grazie per non aver cercato di essere nient’altro che Dylan e scusaci se, invece, siamo state noi a non averti permesso di essere nient’altro che il nostro bello impossibile.

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