Il prodigio dei nostri 90

La morte di Keith Flint dei Prodigy e la storia di un gruppo che ha dato voce a un’intera generazione

Stefano Pistolini

C’era una volta, all’inizio dei Novanta, la “cultura rave” (o la sottocultura, o la definitiva decadenza della dignità occidentale, fate voi), il cui cuore e motore era nel Regno Unito, a Londra – più nelle sue propaggini trucide, però, che nella Camden dei fighetti – e molto nella provincia più lontana e sgarrupata. Era questione, come al solito, di disallinearsi dall’ordine costituito dei consumi, inventare modi di vestirsi (una derivazione del punk), posti dove ritrovarsi (location improbabili, capannoni abbandonati, palestre dismesse, garage sfitti) e un suono che diventasse subito fattore di riconoscimento e possibilmente anche occasione per spassarsela. I grandi e indimenticati gruppi della prima rave culture britannica erano i Chemical Brothers (più sofisticati, sperimentali, attenti a suonare “in avanti”) e i Prodigy, che incarnavano il versante più ruvido, popolare, da strippo e da schiamazzo del sound, che nel frattempo era stato battezzato Big Beat.

  

I Prodigy erano i maestri dei cosiddetti “martelloni”, elettronica banalmente tribale, nei dintorni del dopo-stadio, e della tormentata poetica esistenziale sottoproletaria del sabato sera/domenica mattina. La band veniva per l’appunto dall’hinterland londinese, Braintree, cittadina anonima dove alla fine di un party avevano stretto amicizia Liam Howlett, che sarebbe diventato la mente musicale della band e Keith Flint, che all’inizio doveva soltanto ballare ma poi ne sarebbe stato il cantante, la faccia riconoscibile e perfino la vera incarnazione, un po’ dance, un po’ clown cattivo, un po’ giullare acido, riperticato tra le righe di Arancia Meccanica. Ne parliamo qui oggi, perché Flint, che da qualche tempo si era rimesso alla testa di una nuova edizione dei Prodigy dedicata ai monelli del Ventunesimo secolo, è stato trovato morto nella sua casa di Braintree. La polizia locale ha comunicato che nel decesso dell’artista non ci sono, a prima vista, anomalie che facciano supporre qualche mistero, ma sul profilo ufficiale Instagram dei Prodigy è stata confermata la notizia del suicidio.

  

Flint aveva 49 anni e dalla reazione dei media d’Oltremanica si è capito immediatamente che la sua figura costituiva, soprattutto per la generazione di fine Novecento, un “unsung hero” di quelli che si conservano gelosamente nella scatola dei grandi souvenir. Il fatto è che i dischi e soprattutto i concerti dei Prodigy, di cui Flint era lo spettacolare maestro di cerimonie, sono stati davvero un frammento sensibile di un periodo della cultura popolare british che non accenna a tramontare, tanto più in un frangente di profondo sommovimento emotivo come quello attuale. Flint e i suoi si collocavano al crocevia tra il pop, l’edonismo e la trasgressione, un bel passo in avanti rispetto alla cultura della competizione dettata dal blairismo e ben vicino alle nevrosi dei quasi-teenager, soffocati dalle ansie esistenziali.

   

I loro inni (“Firestarter” e “Smack My Bitch Up”) spopolavano su Mtv, riempivano i dancefloor e sembravano pensati apposta per concedersi un’altra mezz’ora di estatica follia. Poi, d’un tratto, con la brutalità dello stile che è tipica di quelle parti, il Prodigy-sound divenne superato e un po’ cafone, buono per le giostre di periferia. Però la faccia di Flint, i suoi capelli verde fluo, i suoi salti insensati, avevano fatto in tempo a ritagliarsi una cornice perenne in quella galleria di personaggi che non solo hanno conquistato le classifiche, ma hanno sonorizzato una stagione e una temperie della vita di tanti ragazzini cresciuti con le loro canzoni sparate nelle cuffiette del walkman nelle orecchie.