Chris Cornell, Ian Curtis e il rock n'roll suicide

Giulia Pompili

Il cantante di Soundgarden e Audioslave è morto lo stesso giorno in cui, 37 anni fa, si suicidava il corpo e l'anima dei Joy Division

È fin troppo facile fare il collegamento. Ora che la polizia di Detroit ha detto di indagare su un caso di sospetto suicidio, la morte di Chris Cornell – frontman dei Soundgarden e degli Audioslave, solo per citare un paio delle band nelle quali ha militato sin dai primi anni Novanta – carica di significati il giorno di un altro triste anniversario. Quello del suicidio di Ian Curtis, il corpo e l’anima dei Joy Division, che si uccise proprio il 18 maggio di trentasette anni fa, mentre ascoltava l’album “The Idiot” di Iggy Pop. Eppure Ian Curtis oggi è tra gli dèi dell’Olimpo del rock, anche se ha deciso di smetterla a ventitrè anni dopo aver inventato qualcosa che aveva la stessa potenza mediatica del punk senza essere punk, e dopo averlo fatto soltanto con due album, “Unknown Pleasures” e “Closer”, sul finire degli anni Settanta.

 

Che la morte sia consacrazione del mito, questo lo abbiamo imparato da tempo, sin dai tempi del liceo classico, quando si citavano, talvolta a sproposito, eros e tanathos e tutta la poesia che si porta dietro quell’istinto, componente essenziale dell’arte creativa. Sid Vicious è morto così, Nick Drake, Kurt Cobain, ma anche Luigi Tenco. E Mia Martini, il 12 maggio (sempre di maggio) del 1995. Ma non c’è profilo che si possa ottenere, o spiegazione migliore di quella che si trova nelle parole di “Rock n’ Roll suicide” di David Bowie, che nel 1972 fece morire il suo alter ego Ziggy Stardust con la speranza che non morisse mai davvero: “You’re too old to lose it / Too young to choose it / And the clock waits so patiently on your song / You walk past a cafe but you don’t eat / When you’ve lived too long / Oh, no, no, no, you’re a rock n’ roll suicide”.

 



 

Nell’èra dei social network abbiamo le ultime immagini di Chris Cornell, quelle riprese dai fan durante il concerto di Detroit con i suoi Soundgarden. A fine esibizione, poco dopo la mezzanotte, Cornell è stato trovato nel bagno della sua stanza d’albergo da un amico di famiglia, che poi ha avvertito la polizia. Pochissime ore prima di morire, Cornell aveva suonato sul palco “Slaves & Bulldozer” – una canzone del 1991 contenuta in “Badmotorfinger”, con i bassi potentissimi, come quasi tutti i pezzi dei Soundgarden, e un sound unico dato dalla voce altrettanto unica di Cornell, che aveva un’estensione di quattro ottave, una follia della biologia e della genetica.

  



 

Nel 1991 è cambiata la storia della musica rock – secondo alcuni è stato l’anno della migliore produzione della storia – con “Nevermind” dei Nirvana e “Ten” dei Pearl Jam, ma pure “Metallica” della band omonima, “Screamadelica” dei Primal Scream, “Use Your Illusion” dei Guns N’ Roses. E nell’anno in cui la musica rock cambiava Chris Cornell c’era da protagonista, con i Soundgarden e con i Temple of the Dog, un gruppo nato per volere di Cornell e di alcuni membri dei Pearl Jam per ricordare Andrew Wood, cantante dei Mother Love Bone morto di overdose l’anno precedente. E di nuovo la morte, quindi, e di nuovo una musica che rompe le regole e si rende immortale. Chris Cornell aveva 52 anni, era bellissimo come Ian Curtis e come solo i poeti sanno essere, e aveva un’infinita produzione alle spalle che ridurre al solo genere grunge è un insulto a quella storia.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.