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Così Nike è tornata a essere il marchio più influente del mondo

Michele Boroni

Come uscire da una lunga crisi trasformando Just do it in uno slogan “inclusivo”

Non basta fare prodotti eccellenti e comunicazioni d’impatto per essere il brand più rilevante dell’anno. Nell’epoca del societing – crasi introdotta dal sociologo Bernard Cova nel 2000 per identificare un marketing sempre più consapevole che comunica non solo al mercato ma alla società intera la propria visione del mondo che il mercato – è necessario superare ostacoli, inserirsi in un dibattito e prendere una posizione netta assumendosi delle responsabilità. E’ quello che ha fatto Nike quest’anno al punto che Ad Age, la testata più autorevole nel mondo in campo marketing e advertising, l’ha eletto il marketer più influente del 2018.

 

Superare ostacoli, dicevamo. Nike negli ultimi vent’anni ha dovuto risolvere una serie di “macchie” che rischiavano di essere indelebili. Proprio durante il periodo più attivo del movimento no global (inizio anni Zero) Nike fu al centro di una tempesta di accuse di sfruttamento manodopera infantile da parte di un paio di aziende a cui aveva dato l’appalto su alcuni componenti delle proprie sneaker in Cambogia. Dopo aver cancellato tutti i contratti con i suoi fornitori cambogiani e un paio d’anni di forzato silenzio pubblicitario, Nike tornò in Cambogia con proprie fabbriche aperte ai controlli internazionali sui diritti dei lavoratori per impegnarsi a debellare la piaga sociale dei bambini-operai.

 

Anche il 2018 non è partito benissimo per due ordini di motivi. Il primo riguarda un deciso calo delle quote di mercato, di sportwear a favore di altri marchi come la lanciatissima Under Armour, Adidas con il suo ritorno al passato (la linea Classic, tanto amata dai 40-50enni danarosi). Il secondo problema è stata una serie di accuse di discriminazioni di genere sul luogo di lavoro, in termini di salario e avanzamento di carriera, con il carico di molestie sessuali sul luogo di lavoro, leitmotiv dell’ultimo anno specialmente negli Stati Uniti.

 

E’ proprio il caso di dire che da una serie di problemi possono nascere delle opportunità. Senza mettere la testa sotto la sabbia, senza palesare pietose scuse (come altri nostri connazionali, poi ne parliamo), ma investendo per ribadire l’estrema concentrazione e “intenzione a promuovere all’interno di Nike una cultura più inclusiva e garantire diverse rappresentanze all’interno dei nostri team di leadership e nei nostri messaggi” come dichiarò l’amministrazione delegato Mark Parker al New York Times a inizio anno.

 

Da qui gli eventi di questi ultimi mesi che hanno visto Nike protagonista con una campagna che ha coinvolto Colin Kaepernick, ex-quarterback dei San Francisco 49ers che da due stagioni non gioca più nella NFL e in causa con la lega (di cui Nike è sponsor), per averlo boicottato dopo aver dato il via alla protesta inginocchiandosi durante l’inno nazionale prima dell’inizio delle partite di football. Nike lo ha utilizzato come “testimonial valoriale” (insieme ad altri atleti scelti come persone e non solo come performer) per la sua campagna accompagnata da una frase forte (“Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto quanto”) arricchendo il claim Just do it di un nuovo significato. Questo ha da una parte creato una frattura con Trump e i senatori repubblicani come Ted Cruz ma, dall’altra parte, ha attirato l’attenzione e l’ammirazione e gli acquisti dei millennial e giovanissimi (Gen Z) urbani, con una forte percentuale di ispanici e afroamericani, che oggi preferiscono scegliere marchi con una posizione forte e con qualcosa da dire.

 

Questa campagna, legata ovviamente a prodotti sempre di gran qualità e aperture di nuovi flagship store (l’ultimo a NYC) ha portato a una crescita delle azioni del 18 per cento rispetto a inizio anno, le vendite digitali hanno registrato un aumento del 36 per cento (rispetto al 17 dello scorso anno), mentre l’utile netto è cresciuto del 15 per cento verso il 2018, raggiungendo quota $1,1 miliardi.

 

Il candidato confronti la gestione della crisi con quella di Dolce & Gabbana dopo la comunicazione sbagliata in Cina.

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