Cosa rende un marchio unico e inimitabile? I valori che incarna. Il caso Adidas
Ai giudici dell’Ue non piace il logo a tre strisce dell'azienda tedesca, non è “sufficientemente distintivo"
Il caso Adidas è curioso. Il Tribunale dell’Unione europea ha deciso che “le tre strisce parallele equidistanti di uguale ampiezza” della casa tedesca non possono essere un marchio registrato perché si tratta di un segno che non è “sufficientemente distintivo intrinsecamente ed estrinsecamente”. In altre parole, è un segno che è banalmente ordinario in sé e non è sufficientemente riconosciuto in tutti i paesi dell’Ue. Su questa seconda ragione, la diffusione nell’Ue, avranno fatto le loro analisi e c’è poco da dire. Ma sul fatto che il marchio sia distintivo intrinsecamente c’è qualche considerazione da fare.
Cosa fa sì che un segno diventi un marchio? In fondo i segni non sono tutti “ordinari” se li si prende in sé? L’ala di Nike o la M di McDonald’s sono meno ordinari? O meglio, lo erano quando sono nati? La mela smozzicata di Apple o i cerchi di Audi erano più riconoscibili da un frutto smangiucchiato qualsiasi e da quattro ordinari cerchi di qualsiasi prestigiatore o gioco da bambini? Il fatto è che i marchi si poggiano per l’identità su loghi che dal punto di vista della scienza che studia i segni sono tutti “indici”. Si tratta cioè di tipi di segno che si collegano al proprio oggetto come un’etichetta a una bottiglia o il calciatore che gioca al nome che si legge stampato sulla maglietta. I nomi propri funzionano allo stesso modo: qualcuno ne appiccica uno alla nascita o al battesimo e poi quel nome ci identifica perché viene riconosciuto da tutti nel chiamarci.
Il logo assomiglia in questo senso a quei particolari nomi propri che sono i soprannomi. Non è che ci sia stato un battesimo ufficiale da parte di qualcuno. In questo caso si decide che un certo segno, dato da qualcuno o da se stessi, venuto fuori per caso o per amore, per un episodio casuale o cruciale, è un segno che ci identifica. Ci può essere un segno “troppo ordinario” o “non distintivo intrinsecamente” in questo senso? No, tutti i segni sono utilizzabili e tutti diventano significativi se utilizzati sempre e riconosciuti.
Non è così semplice però. Tanti loghi finiscono male e una delle pecche delle aziende è spesso quella di investire poco in questa ricerca di identità, pensando – come spesso accade – che la comunicazione la possano fare tutti senza preparazione e che, almeno su questo, si possa risparmiare.
Invece, la bravura dei comunicazionisti sta proprio nella capacità di sintesi, nel trovare quella caratteristica identificativa e facile, quel segno che in un tratto solo racconta la storia, le motivazioni, i valori, cioè l’identità di un’azienda. Più il segno è semplice, più la comunicazione è riuscita. Non perché si è trasformato qualcosa di ordinario in straordinario a furia di insistenza e ripetizione – che pure servono –, ma per essere riusciti a mettere l’idea nel segno, avere incarnato lo straordinario nell’ordinario, cioè i valori dell’azienda in un segno che, molte volte, come nel caso dell’Adidas o della Nike, poteva fare chiunque.
Per esempio, Adidas e i suoi grafici descrivono il significato delle celebri tre strisce come una rappresentazione di molteplicità di obiettivi e sfide. Quindi ha ragione Adidas e ha torto il Tribunale? Non è detto. Ovviamente i giudici devono decidere se il segno che Adidas considera come autoidentificativo sia sufficientemente chiaro per tutti, tanto da escludere che altri lo possano utilizzare per scopi o identificazioni diverse. Tutte le volte che uno vede tre strisce di uguale ampiezza messe in verticale pensa alla casa tedesca di produzione di abbigliamento sportivo? In Italia probabilmente sì, ma il Tribunale dice che non è così dappertutto. In questo caso, la ditta tedesca non ha che da ampliare il proprio mercato e aspettare. Se invece il problema è il valore intrinseco del logo, l’ordinarietà delle tre strisce equidistanti di uguale ampiezza, il Tribunale si sbaglia. I segni di appartenenza sono sempre piccoli e ordinari, ma sono anche l’incarnazione dello straordinario patrimonio valoriale di ogni uomo e di ogni impresa umana.
Intervista a Gabriele Lavia