La statuina di Donald Trump realizzata dagli artigiani di San Gregorio Armeno, patria dei presepi (foto LaPresse)

Il presepe, cattiva tradizione*

Maurizio Crippa

La serendipity di don Favarin a Padova e un problema (serio) con l’uso politico della religione e del Natale

Ma il presepe è un dogma? E’ un Sacramento? Si parla del presepe, nel Catechismo della chiesa cattolica? (No, si parla del Natale, al numero 525: “Il mistero del Natale”). Che cos’è allora questo benedetto presepe, cui siamo (almeno i cristiani) così affezionati e di cui Papa Francesco ha detto che richiama “il mistero dell’Incarnazione, il Figlio unigenito di Dio fattosi uomo per salvarci”? Insomma cos’è? Una tradizione? No, per niente. La tradizione sono l’albero, le renne, i segnaposto a tavola. Tutte quelle buone cose di pessimo gusto di cui in una geniale pubblicità natalizia Fiorello dice: nessuno le vuole, alla gente interessano solo i regali. E allora, “cosa siete andati a vedere nel deserto?”, strillerebbe Gesù a gente che non ha occhi per vedere, ma solo per travisare. Che cosa vedete, quando guardate un presepe? San Francesco lo fece allestire per la prima volta a Greccio nel 1223 come una forma di meditazione vivente, tangibile, della venuta nel mondo di Gesù. Non un decorativo ricordo del passato, ma una cosa che stava ri-accadendo lì, proprio in quel 1223, sotto i suoi occhi. Se non è questo, il presepe è niente. E don Luca Favarin, il prete di Padova che scandalizzando molti ha scritto “quest’anno non fare il presepio credo sia il più evangelico dei segni” ha detto una cosa cristiana e vera, perfino teologicamente.

  

 

E’ possibile che don Favarin non ci abbia manco pensato, a tutto questo, e che ci sia arrivato per un caso di serendipity, il concetto laico più vicino a quello di Grazia divina che si possa immaginare. Lui ovviamente ce l’aveva con il decreto sicurezza di Matteo Salvini e con questo clima (nemmeno tanto nuovo, va detto, soprattutto dalle sue parti) rispetto ai migranti, ai profughi, agli stranieri, tanto più se di altre fedi religiose, che giungono nel nostro paese. Sempre meno graditi, anzi è proprio ora di rimandarli a casa loro, così ormai la pensa anche una grande parte di coloro che si dichiarano cristiani. E allora: “Oggi fare il presepio è ipocrita – ha tuonato il don – Il presepe è l’immagine di un profugo che cerca riparo e lo trova in una stalla. Esibire le statuette, facendosi magari il segno della croce davanti a Gesù bambino, quando poi nella vita di tutti i giorni si fa esattamente il contrario, ecco tutto questo lo trovo riprovevole”. Ora, emendato del fatto che la Sacra Famiglia a Betlemme non era “profuga” (ma lo sarebbe diventata assai presto) il richiamo alla coerenza evangelica (“ero straniero e mi avete accolto”) non fa una piega. Ma non è questo il punto. Il punto che don Favarin azzecca, e fa nulla se è per caso, è che non fare il presepe – che non equivale a non celebrare la Messa di Natale – oggi potrebbe essere davvero il più evangelico dei segni. E non per politica spicciola, o per non darla vinta a Giorgia Meloni e a tutti gli orripilanti utilizzatori demagogici di attrezzature religiose che non sono loro.

 

Il problema riguarda qualcosa che sta più in profondità, ma che determina quanto mai il corso dei pensieri e degli eventi pubblici. La prima questione è appunto la tradizione. La tradizione non è una cosa buona per forza, è una cosa che piace ai tradizionalisti, o ai nostalgici. Un conto è la traditio fidei, e un conto è mantenere la posizione delle statuine come erano disposte ai tempi di sant’Alfonso Maria de’ Liguori perché sennò “la magia” del Natale non arriva. Peggio ancora quando la tradizione come ripetizione di atti e forme serve soltanto a marcare un territorio, una disparità, un confine da difendere con le armi, prima o poi non solo metaforiche. Il presepe di Trump lo abbiamo già visto. Ma oggi una parte del popolo cattolico, e dell’elettorato cattolico, offre la sua tradizione religiosa come strumento per questo tipo di politiche. Per un altro caso di serendipity, il Vangelo ambrosiano di ieri, mercoledì, parlava proprio della tradizione: “Alcuni farisei e alcuni scribi si avvicinarono a Gesù e gli dissero: ‘Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi?’”. Parlavano del fatto che i discepoli di Gesù non si lavavano le mani prima di mangiare. “Ed egli rispose loro: ‘E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione?”. Ma parlava, siccome conosceva i suoi polli, del fatto che i custodi della tradizione avessero fatto una norma per evitare di aiutare economicamente i genitori vecchi. “Avete annullato la parola di Dio con la vostra tradizione”.

 

Ma soprattutto, e qui don Favarin non c’entra più, il problema è quando la fede cristiana finisce per diventare uno strumento nelle mani di chi la vuole utilizzare per altro: come un segnaposto, una marca di confine. Ed è questo uso distorto della religione quello che non funziona, prima ancora della sua ricaduta politica, che pure è evidente. E’ questo che sta dietro lo slittamento del voto dei cattolici che ormai, nonostante i desiderata dalla Conferenza episcopale, votano convinti per i partiti che vogliono uscire dall’Europa, che non vogliono essere solidali con nessuno, manco col vicino di casa, in cambio di una formale difesa della tradizione.

 

Il presepe, ovviamente, è da molto tempo diventato un noioso simbolo divisivo a prescindere persino da Salvini. Le statuine vengono tirate da una parte e dall’altra, indifferentemente. E’ il tema anche di La prima pietra, il film in cui Corrado Guzzanti è il preside di una scuola in cui un banale incidente fa saltare la recita di Natale e smaschera quanto sia solo di facciata la retorica buonista dei diritti egualitari. (Geniale come sempre, Guzzanti del suo preside ha detto: “E’ del Pd, ma non lo sa”). Ma appunto, questa è politica. E siccome il presepe non è un dogma, né un Sacramento, e rischia invece di diventare una tradizione vuota a disposizione di altri discorsi, la provocazione di don Favarin ha qualcosa di vero: forse è ora di sottrarre la mistica meditazione di san Francesco a questa canea. Per chi vuole, ci sono sempre Babbo Natale e i regali, come dice Fiorello.

 

*Si fa per dire

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"