Acné, pellicola dell’uruguaiano Federico Veiroj

L'accettazione non basta più e i difetti diventano trend: ragazzi, l'acne è cool

Simonetta Sciandivasci

Influencer empatici e nessuna voglia di migliorarsi

Dice il New York Times che l’acne è cool. Lo dice perché chi ce lo fa fare d’insegnare l’accettazione (di un difetto, di una malattia cronica, della difformità della taglia della realtà dalla propria, dei bulletti che t’insultano per qualsiasi sporgenza dalla norma: di tutto ciò che è irrisolvibile): l’accettazione costa fatica e non porta guadagni, né seguaci. Meglio trasformare il difetto in un trend, qualcosa di desiderabile e non passare per le forche caudine della consapevolezza. E’ la regola aurea di questo tempo: se non sai accettarti, costringi gli altri a farlo; tu sei il pianeta, gli altri sono i satelliti. Hailey Wait, influencer statunitense, diciotto anni, gli ultimi sette dei quali trascorsi a lottare contro l’acne, ha confessato ai suoi follower: ho l’acne e non intendo più nasconderlo perché l’acne non rende brutti. In poche ore, è passata da quindicimila a centocinquantamila e passa follower (grazie, hai rotto un tabù; cosa devo fare per curarmi; soffro di depressione per via della mia faccia).

 

Matt Traube, psicoterapeuta, ha detto al New York Times che è in atto un cambiamento culturale epocale, che si sostanzia in una forte insofferenza verso le pubblicità tradizionali, quelle di medicinali che propongono una cura, che osano cioè trattare l’acne per ciò che è – un problema dermatologico serio – anziché come qualcosa di cui, per smettere di vergognarsi, si può imparare ad avere un moderato orgoglio. Secondo uno studio pubblicato all’inizio dell’anno sul British Journal of Dermatology, chi soffre d’acne ha il 63 percento di possibilità in più di ammalarsi di depressione (che sta diventando un’epidemia e basta leggere Il secolo greve di Mattia Ferraresi per capire non solo perché, ma pure che non riusciamo a contrastarla perché anestetizziamo tutto il dolore, la problematicità e la complessità di ogni istante, aspetto, mestiere del vivere). Il dato è allarmante, ma lo è ancora di più il fatto che, per contrastarlo, la soluzione degli esperti sia esortare artisti famosi e influencer a esporre pubblicamente i propri brufoli, a far vedere che anche le star hanno sebo in eccesso e acne e cellulite e che le facce degli esseri umani non sono affatto come appaiono nelle foto ultra-ritoccate dei profili virtuali.

 

Non s’interviene sul bilanciamento o sulla riappropriazione del senso di realtà: si sceglie un testimonial famoso e lo si usa per instaurare una relazione di empatia con il pubblico, drogandolo d’autostima. Tesoro, se Justin Bieber ha l’acne, non solo puoi averla anche tu, ma puoi dirti orgogliosa di esserne affetta. “Le celebrità hanno le stesse fragilità di tutti: mostrarle offre alle persone la possibilità di vedere le loro qualità umane e questo cambia tutto”, ha detto ancora Traube. Magari è vero, ma quanto può durare? Siamo certi che sia efficace rinunciare del tutto all’idea che l’emancipazione non si conduce attraverso l’emulazione? Qualche mese fa fece coming out la cantante Lorde, ma lei disse “l’acne fa schifo” e non “l’acne è cool”. Pochi giorni fa, ha dichiarato di esser stufa di truccarsi anche Matilda De Angelis, protagonista del nuovo video dei The Giornalisti e icona di molte ragazzine: ha mostrato i brufoli come certe ragazze giravano con le tette al vento vent’anni dopo Guccini. Ostentare malattie e imperfezioni è un atto politico e postula l’autenticità come misura unica del valore di ciascuno. Un valore assoluto, fonte di diritti altrettanto assoluti.

 

Dalla parte delle bambine, da quando le bambine sono influencer con centinaia di migliaia di follower, c’è prima di tutto la linea educativa di Pina Fantozzi (che t’importa del mondo, sei bellissima così come sei, amore di mamma), che ha trionfato grandemente su quella di Cinzia Leone in Parenti Serpenti (“hai un culo che fa provincia!”, urlava alla figlia cicciottella che voleva fare la ballerina): quant’erano crudeli certe mamme degli anni Novanta, con i loro esercizi di realtà. Forse in questo pasticcio ci siamo finiti pure dicendoci in continuazione che accettarci era compito degli altri, non nostro, e che migliorarsi mortifica e violenta l’autenticità. Quelli che votano scheda bianca per non sporcare, oh yes.

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