La copertina del libro “Il tuo nome è una promessa” (Einaudi)

Il mio futuro

Anilda Ibrahimi*

Le madri del regime non erano il mio modello, io volevo la libertà. Ho avuto tre figli e sono libera

Non ho tanta scelta, dicevo dondolandomi su una vecchia sedia azzurra tutta sgangherata. Cosa potrei inventarmi per il futuro? Le cortigiane alla Balzac non esistono più, e io non amo i falsi, le cose vanno fatte per bene.

  

Eravamo sul terrazzo di casa mia, di fronte al mare, lui quasi assente si faceva vivo con qualche leggera onda. Una scena che si ripeteva tutte le sere o quasi. Avevamo solo quindici anni.

  

La danzatrice alla Mata Hari, così potresti fare anche la spia? Mi suggeriva lui. Eh no, ora è tutto diverso rispondevo io, vedi come si combatte la Guerra fredda?

  

La moglie di qualcuno tranquillo, continuava lui, che ti lasci fare le tue avventure, come Emma o come Anna. Sì certo, rispondevo io, hai visto la fine tranquilla che hanno avuto loro?

  

Cercavamo disperatamente di intravedere il nostro futuro, anzi il mio. Lui del suo non parlava mai. Nel mio invece mancava la cosa più importante. La maternità. Anche il lavoro, ma per questo ci stavamo impegnando. Era la fine degli anni Ottanta, in pieno regime comunista. La donna era la forza della rivoluzione oppure madre eroina. Quelle mettevano al mondo almeno cinque figli. Non era il caso mio, mai avuto aspirazioni così grandi.

  

Mia madre aveva partorito tre figli, purtroppo non era diventata eroina. Faceva l’insegnante, curava noi e la casa, sfornava tanti biscotti e teneva corsi di scrittura, arrivava il sabato comunista e lei lavorava nei campi, leggeva tanti romanzi, quante cose faceva. Io non volevo diventare come lei. Ma come mia madre desideravo leggere, leggere sempre.

  

Mettere al mondo dei figli era fuori discussione. In quell’epoca andavo in giro recitando Gibran o meglio strillando con quella retorica che è presente ancora oggi: io sarei stata madre in un altro modo, madre dell’umanità perché poi che importanza ha chi li partorisce i figli, se appartengono al futuro di tutti noi?

  

Di fronte a casa mia c’era un grande asilo. Osservavo il pullman delle operaie che arrivava alle cinque per prelevarli, le loro stridule risate, i baci umidi. Erano tutte grasse, tanto da sembrare incinte sempre. Le gravidanze avevano dato al loro corpo la forma di certi barili dove tenevamo le olive per l’inverno. Io ero magra con il punto vita e il seno grande e il sedere tondo già a quindici anni, come avrei potuto mettermi contro madre natura per distruggere quello che lei generosamente mi aveva regalato?

 

Ho capito molto tardi il motivo del mio rifiuto: a parte quelle donne, io non avevo un altro modello da seguire. La madre doveva essere così in una dittatura, anzi la donna in generale non doveva essere bella perché avrebbe distratto l’uomo nuovo dalla costruzione del mondo nuovo. Non avevo nessuna strada da percorrere, quella era l’unica.

 

Sono diventata madre molto giovane. Non so ancora se è stata una scelta mia. Forse quella di rimanere incinta così giovane no, ma di diventare madre sì. Nel momento in cui mi hanno messo in braccio mia figlia coperta di grumi di sangue, l’ho allontanata con un secco movimento che diceva “non adesso”. A pochi minuti dal parto ero occupata a cercare la pancera dentro la borsa. Quella stretta che impedisce alla pancia di rimanere per sempre. Avevo sentito dire così e non volevo rischiare.

  

Ho allattato mia figlia. L’odore del latte materno che mi ricordava le donne sformate della mia infanzia non mi faceva più senso. Ho avuto altri figli, tre in tutto. Proprio come mia madre. Dopo ogni parto, prima di guardarli in faccia, cercavo la pancera.

 

Non l’ho mai raccontato al mio amico del liceo, lui ha scelto di andarsene per sempre, il mondo nuovo dopo la fine del comunismo non l’aveva entusiasmato. Non so cosa avrebbe pensato di me nel vedermi indaffarata tra pannolini e pappe, con questi figli che non sono mai riuscita a svezzare prima dei tre anni.

  

A volte penso a lui. Alle altre vite che non saranno mai le mie. A quelle che dovevano assomigliare alle eroine dei nostri romanzi. Salire su un treno, un treno qualunque e andarsene senza voltare la testa. Attraversare i nodi, saltare dall’altra parte del baratro senza mai chiedersi se sarebbe stato meglio cadere dentro l’abisso o trovarsi in salvo.

 

Ehi, amico, non l’avresti mai immaginato lo so, sono madre di tre figli, io, ti rendi conto? E sono ancora così vanitosa, hai presente Becky Sharp? Thackeray sarebbe fiero di me. Anche frivola, quello sempre anche se ora non sono più così fatalista da considerarlo un fardello che mi è stato dato alla nascita, ma una mia conquista da donna libera.

 

Perché noi siamo tante cose. Siamo il giorno che ci avvolge e ci denuda con la sua spietata luce e siamo la notte che ci rende senza legami e pieni di segreti, mentre il vento fa dondolare una vecchia e sgangherata sedia azzurra di fronte al mare, in qualche angolo remoto della terra.

  

*Il suo ultimo romanzo è “Il tuo nome è una promessa” (Einaudi)

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