Junot Díaz non era un mostro del #MeToo. Ma meglio non dirlo
Il presidente del premio Pulitzer, dimessosi dopo le accuse di molestie sessuali, non è un molestatore. La notizia però non viene accolta e raccontata con lo stesso clamore
Questa è una breve ma intensa storia di giustizialismo e barbarie. Prima il finale: Junot Díaz, premio Pulitzer accusato di molestie sessuali, non è un molestatore. La notizia è di ieri, i giornali (per ora solo inglesi e americani) ne hanno scritto in qualche riga un po' sciatta e trafiletti defilati, proprio come succede in Italia - paese di forum mica di agorà - a chi viene assolto dopo anni di processo, gogne (in tv, sui giornali, sotto casa, nei parcheggi) e presunzioni di colpevolezza.
I risultati delle indagini interne condotte dal Massachusetts Institute of Tecnology (MIT) sul comportamento dello scrittore sono chiari: non ha commesso nessuna aggressione, nessuna violenza, niente che giustifichi né il suo demansionamento né la sua espulsione dal MIT, tanto che la preside della facoltà di Studi Umanistici s'è affrettata a dire che ne auspica il ritorno già dal prossimo autunno (il rinnovo della cattedra era stato congelato).
Non una parola neanche dalle tre accusatrici presso hashtag (due scrittrici e una saggista) che, a maggio, avevano rivelato una (Zinzi Clemmons) di essere stata forzata da Junot Díaz a dargli un bacio, diversi anni fa, quando era ancora una studentessa di lettere; un'altra (Carmen Maria Machado) di essere stata da lui messa a tacere quando, durante un incontro pubblico, gli aveva detto di aver notato che le protagoniste dei suoi romanzi erano sempre ritratte con un certo sessismo (che eroe, che eroe!); un'altra (Alisa Valdes) di non aver ricevuto né fiori né opere di bene e/o complimenti, dopo esserci finita a letto quella volta che, molto giovane, lo aveva invitato a casa sua, di notte, per parlargli del suo lavoro di “stella nascente della saggistica letteraria”.
Tutte e tre giuravano di avere le prove di queste insopportabili violenze e, in pochi giorni, si era alzato il polverone del #metoo e del Time's Up e lo scrittore al di sopra di ogni sospetto (intersezionale, dominicano, qualche stupro subìto durante l'infanzia - ne aveva scritto sul New Yorker ad aprile scorso) era diventato un mostro che chissà quante altre povere studentesse aveva molestato, sedotto, illuso, offeso, costretto a far cose da adulti senza accertarsi che loro ne fossero pienamente e autenticamente entusiaste. Così, in meno di una settimana, gli era stata tolta la presidenza del Premio Pulitzer e messo in pausa l'insegnamento al MIT, gli avevano fatto slittare la pubblicazione di un libro di fotografie, aveva annullato tutti i suoi incontri letterari, s'era dovuto dire disponibile a prendersi le sue responsabilità, a collaborare a indagini sulla sua condotta, ad accettare che di lui si potesse pensare qualunque cosa, che fosse un pericolo per le studentesse, un maniaco, un pervertito, un misogino, quasi quasi un moro come si credeva fossero i mori nel Cinquecento. Era diventato l'esempio pratico di come il potere logori sempre il maschio, anche (forse soprattutto) quando la parabola della sua carriera soddisfa tutti i canoni del riscatto, i più in voga del momento.
Quando sono maschi sono irredimibili, la settimana scorsa sul Washington Post c'era un articolo che domandava, retoricamente, perché mai non dovremmo odiare i maschi, visto quanto dominio esercitano ancora su qualunque cosa (voi che affollate le sale di cinema quando ci sono i film distopici: riparmiate sul biglietto, guardate la realtà). La ridicolaggine delle accuse indirizzate a Díaz, comunque, non aveva minimamente esortato alla cautela e, anzi, aveva alimentato e allargato i sospetti, della caduta dei quali, però, oggi si ritiene poco rilevante informare massicciamente il più gran numero di persone possibile. E' solo una testa scampata alla forca, quanto volete che conti ragionare su come è arrivata al patibolo? Non una riga che sottolinei il dato di realtà: indagando un condannato su Twitter, fuori da Twitter, capita che lo si scopra innocente. Mattia Feltri ha scritto una volta, con grande amarezza, che “assolto un colpevole se ne fa un altro”, quindi perché crucciarci. Sarà interessante stare a guardare, aspettare il momento in cui su Twitter verrà deciso che Junot Díaz è protetto dall'establishment patriarcale e dalla sua omertà e ipocrisia (è quello che la figlia di Woody Allen ripete da anni - cioè da quando è stato provato che suo padre non l'ha violentata e lei è stata manipolata da sua madre - con buon consenso di pubblico). La disintermediazione della giustizia l'ha resa, di fatto, impossibile.