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L'invasione di Ikea, non degli immigrati

Simonetta Sciandivasci

Ci siamo persi lo spazio vitale, ecco perché siamo così arrabbiati e brutti

Roma. Cara voce del popolo, stante che, come dici, è tutta colpa del Pd, tant’è che pure se c’è un governo Lega-Cinquestelle in carica con un ministro degli Interni che blocca i porti, l’altro giorno in tv, a “DiMartedì”, c’era Delrio a rispondere delle politiche migratorie e Minniti a prendersi dello sbirro, senti una cosa: è pure colpa dell’Ikea.

  

Questa grande invasione percepita ma irreale, che tu denunci fortemente e che ci ha trasformato tutti in gatti neri, pessimisti, cattivi pensieri che se ne fregano di com’è profondo (e assassino) il mare, è una distorsione, un’illusione, un trompe l’oeil al contrario, praticamente una truffa. Dice la scienza che tutti i viventi su questa terra, esclusi forse pesciolini e uccellini, e più di tutti umani e animali terrestri, hanno uno spazio personale: una zona di protezione che l’istinto costruisce loro intorno, una specie di raggio, d’emanazione e sconfinamento di sé che, quando viene invaso, fa scattare l’allarme e allerta la difesa. Siamo il nostro corpo e pure l’invisibile silhouette che gli si disegna intorno, a pochi o molti centimetri di distanza (ai coccodrilli servono cinquanta metri, a un bassotto meno di uno, all’incirca quanto a un essere umano).

     

L’Ikea ci ha offerto motivi apparentemente validi per rinunciare a quel metro, a quell’inviolabile sacrario: l’arredamento da grandi in case da piccoli, il design universale, il risparmio, l’economicità del danno, il comfort nonostante tutto. Abbiamo abboccato e siamo andati a vivere in tuguri, casette, microlocali dove è impossibile o rischioso camminare (si finisce dal vicino e in mutande senza volerlo mentre si cerca lo straccio) e per lo spazio personale non c’è spazio: o lui o il letto, quindi meglio il letto, solitamente “il Tarva di legno grezzo chiaro se siamo universitari, il Malm se siamo più adulti”, scrive Roberto Moliterni nel suo La casa di cartone (Quodlibet, uscito giovedì), che è un libro (bello) su come l’Ikea ha rimpicciolito l’amore e ha accelerato la disillusione dell’illusione più vecchia del mondo: “Ciò che rende uguali le coppie è la convinzione di essere uniche” (E. Kurt Zelmann). Non è vero che non c’è posto e che non c’è spazio: ci sembra vero perché viviamo ammassati e se viviamo ammassati, viviamo in allerta, lo spazio personale violato ci fa drizzare le antenne, le corna, le orecchie, ci fa temere chi s’avvicina, fa dire “prima noi” a noi che abbiamo inventato la galanteria, che assurdità.

  

Scrive Moliterni che non c’è modo di uscire dall’Ikea, cioè da casa nostra, nemmeno quando andiamo in vacanza, perché la casetta che affittiamo è arredata Ikea e allora, cara voce del popolo, ragioniamo su questo: quanto ci si è chiuso lo sguardo, a veder sempre le stesse cose pure quando siamo partiti per vederne di nuove e diverse? E’ un processo che non può non avere qualche responsabilità nell’aver indotto così tanti italiani a sentire che l’Italia è in overbooking (e invece magari non lo è). Michael Graziano ha scritto sull’Atlantic che Trump è uno che vìola continuamente lo spazio personale del suo interlocutore e che per questo è un bullo (dunque a Conte che al G7 stava lontano da tutti come fossero coccodrilli va riconosciuto un certo savoir-faire). Scrive poi Graziano che da quando la nostra vita si è spostata online, da quando molto più che corpi siamo account, lo spazio personale e lo spazio in sé si sono sciolti, per questo non riusciamo a connetterci né agli altri né alla realtà, per questo imprechiamo tanto contro gli sconosciuti e siamo sempre automobilisti in coda sul raccordo, incazzati e annoiati e frustrati e soli e brutti, perché quando si perde l’idea dello spazio non si diventa liberi di volare, ma prigionieri della paura di cadere. Scrive Moliterni che l’inizio della fine delle relazioni comincia quando si entra all’Ikea la prima volta, per comprare il primo armadio della nuova casa insieme, e si passa in mezzo a decine di coppie con il metro di carta e le matite, tutti a prender misure per risparmiare spazio e soldi, rimpicciolire tutto, fare largo, arrivare prima di tutti, rimanere soli, convincendosi non c’è più posto, non c’è più lavoro, non c’è più decoro.

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