La splendida lezione di Matilde Serao sul fare giornalismo (pur) essendo donna
Le lamentele #tuttimaschi e qualche ceffone femminile dagli Usa
Roma. E’ difficile immaginarlo, ma è esistito un tempo in cui le giornaliste subivano nequizie peggiori di non firmare articoli in prima pagina, o di firmarne di rado o occuparsi più di costume e cultura che di politica, o di intervistare uomini o condurre il principale talk del paese e però avere più ospiti maschi che femmine. Lo scorso fine settimana, mentre all’hashtag #tuttimaschi si denunciava tutto questo – e pure lo scandalo dell’ultima copertina del Venerdì di Repubblica, “Il bitcoin spiegato a mia madre”, accusata d’assumere e presumere che le madri, e quindi le donne (e saluti a “non siamo donne in quanto madri”) sono tonte, sul New York Times, in una oral history dedicata al Time, Maureen Dowd, lì reporter dal 1981 al 1983, ha ricordato quegli anni.
In redazione, le donne erano chiamate vergini vestali, l’atmosfera era spiccicata a quella di Mad Men, “nonostante il movimento femminista fosse al culmine, il mio capo, quando chiudevamo la rivista, si sentiva libero di portare i giornalisti a cena, senza invitare le giornaliste”. Conclusione: una di loro s’incazzò, molte mollarono, nessuna andò mai a quelle cene e ora, quando lo raccontano non alle amiche, ma sul quotidiano più autorevole del mondo, possono anche permettersi di farci intendere che è stato meglio così (sai il tedio a morte di andare a cena con un desk di cronisti dopo 18 ore di redazione?).
Succedeva nello stesso paese dove, nel 1970, le redattrici di Newsweek (i colleghi le chiamavano mailgirl) stanche di smistare la posta, editare, far ricerche e mai articoli, denunciarono il giornale per discriminazione sessuale e vinsero, presero a scrivere, firmare, ideare. Un ricordo di Nora Ephron scritto da Gail Collins s’intitola: “La migliore mailgirl di tutti i tempi”, perché anche lei (lei!) cominciò al Newsweek e fu una ragazza della posta, però, quando capì che non l’avrebbero mai fatta scrivere, girò i tacchi, anche se era femmina, giovane, col potere contrattuale a zero ed era più realistico che finisse a fare la dattilografa e non che diventasse chi è poi diventata, cioè una che, da quando è morta, noialtri si ride e capisce tutti, di tutto, un po’ di meno (e non ha mai scritto editoriali di politica, Nora Ephron).
Cerchietti intorno alle firme maschili non hanno mai aiutato nessuna giornalista a far carriera, né il giornalismo a far meglio i giornali, prima di Twitter la guerra dei sessi era una corsa a competenza, inventiva e coraggio, non alla casella o al potere. “Esiste la guerra, ma è una realtà senza parole: è una realtà senza poeta”, scrisse Matilde Serao nell’introduzione a Parla una donna (1916), appena ristampato da Rina Edizioni, e che raccoglie gli articoli che Serao scrisse, sulla guerra, per il Giorno, quotidiano che aveva fondato dopo la rottura con il marito, Edoardo Scarfoglio, con il quale aveva già fatto nascere il Mattino (erano i primi del ’900, le donne non votavano e fosse stato per lei mai avrebbero dovuto farlo perché – scrisse – “son tutte sentimento”). Si trattava di pezzi inediti, che portavano su un giornale la cronaca della guerra dalla guerra che entrava in casa. Fu Serao la prima a capire che numeri e analisi contavano fino a un certo punto e, in un conflitto come quello, che fece rinnegare il bellicismo a un’interventista di ferro come lei, non contavano affatto, e fu contenta di lasciarli a Scarfoglio, ai maschi, circondata dai quali lavorò sempre, convinta che per scrivere dovesse “rinunciare alle debolezze del mio sesso” e dare ai lettori qualcos’altro, la parola dell’impotenza – ai tempi, significava parola di donna – lei che, anni prima, aveva scritto quella della leggerezza (intridendola di politica), dagli stessi salotti mondani che avevano tutto l’interesse a sventrare la Napoli dei suoi amati straccioni. In “Parla una donna” scintillano le intuizioni di Serao su come, durante una tragedia, si dovesse entrare nelle case e scriverne poi con il tono del soffio, del colore, della compassione. Quel tono che era un inedito assoluto e grazie a lei, in Italia, costruì il costume, una delle poche cose per cui, insieme alla cultura, i giornali vendono ancora qualche copia.