LaPresse Torino/Archivio storico

L'Età della deferenza. Cosa rimane dell'Italia felix su cui regnò l'Avvocato

Michele Masneri

Quindici anni fa la scomparsa di Gianni Agnelli. Quando tra Carlo De Benedetti e Scalfari non finiva a ciabatatte 

Roma. I più giovani ignorano chi era e cosa facesse, e sembra davvero strano che un tempo si dedicassero tante energie e pagine e premure a un signore molto brizzolato e dalla bizzarra vita – un giorno, serioso, arringava in gessato gli imprenditori dal palco della Confindustria, quello dopo saltava da una barca, ignudo, o dava il braccio a qualche first lady estera. Era quindici anni fa, terzo lustro dalla scomparsa di Gianni Agnelli, era il tempo pre-Instagram, quando questo genere di foto erano rarissime (per quella in cui si butta ignudo da un veliero ci fu un intrigo internazionale, fu pubblicata in Spagna e solo da lì poi rimbalzò in Italia, su volontà addirittura di Juan Carlos, rivale di scorribande muliebri) e non programmate e addirittura autoprodotte. C’erano persino strutture e uffici stampa pagati proprio perché questo materiale – pare incredibile – non uscisse; veniva comprato anzi a caro prezzo per poi essere distrutto. Era ancora l’epoca della deferenza, quando la regia della soap opera – non ancora nobilitata a “serie” – avveniva dall’alto, con una regia che distribuiva al popolo una narrazione e storytelling preciso: cinismi ben temperati che permettevano alle folle d’immedesimarsi, e una perfetta drammaturgia, la moglie silente e gentilizia, fotografa e giardiniera, le sorelle impalmatrici di nobiltà provinciale. Il contagio con letterature internazionali (Arbasino e Capote), l’uso sciistico dell’elicottero, gessati e abbronzatura e lingue straniere. Uso di mondo e di case, poltroncine di vimini e Fiat Panda modificate “bespoke” per residenze in giro per il globo. La regia, curata da leggendari uffici stampa, con energie e dispendi mai ugualmente spesi nel disegno e nella produzione automobilistica, generava a cascata tutta una pubblicistica e una cinematografia, da Yuppies a Fantozzi (i grandi azionisti della megaditta coi nomi gentilizi vengono tutti da lì). In su o in giù, la diffusione anche di un idealtipo d’italiano diventato globale – il renard argenté tutto doppiopetti e cravatte di lana (anche per fare il Blake Carrington protagonista di Dynasty, petroliere self made man del Colorado di sospetto chic, venne copiato sempre lui, Agnelli). Una effimera marca d’abbigliamento si chiamava “Johnny Lambs”.

   

Nella società verticale italiana l’Avvocato regnava sulla deferenza: era una società più semplice, era, per dirla con Stefan Zweig, “l’età della sicurezza”, quella in cui “ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli spettava, che cos’era permesso e che cos’era proibito”. “Ogni cosa aveva una sua norma, un peso e una misura precisi”, scrive Zweig, nostalgico dell’Impero, in “Il mondo di ieri. Ricordo di un europeo”. “Questo senso di sicurezza era il bene più alto cui potessero aspirare milioni di persone, l’ideale di vita comune”. L’Italia non era l’Austria Felix, svalutava e si destreggiava, entrava e usciva dal sistema monetario, aveva governi balneari e pentapartiti, però c’era sempre lui al vertice della gerarchia sociale e in regia. A cascata, il mito e il corpo dell’Avvocato con tutte le morfologie della fiaba (la gamba persa in un incidente, forse addirittura “di legno”, il naso clonato – tutto sempre forse, perché Casa reale non confermava né smentiva – l’uso smodato della cocaina, il poco sonno, la vita comunque dannunziana) scendevano per i rivoli della società italiana, tra imitatori prestigiosi (il pupillo Luca Montezemolo, il rivale De Benedetti), giù giù fino al commercialista di Sondrio che non avrebbe mai comprato una Fiat: però il Rolex sul polsino se lo metteva eccome, e l’uberproletario che invece era costretto alla 127 però la domenica tifava comunque Juve. Lo storytelling era efficace nella sua serialità, tipo “Anche i ricchi piangono” (morti tragiche anche in località esotiche, suicidi). Generava un’aneddotica ricchissima e virale, prima dei social network: mezza Italia, tipo targa “qui dormì Garibaldi”, sosteneva d’essere tormentata dalle telefonate antelucane (se avesse chiamato davvero tutti quello che lo vantavano, la prima mattina dell’Avvocato sarebbe durata diciotto ore).

  

Certo l’opera d’arte totale agnelliana non prevedeva altre versioni che il “director’s cut”: la versione dell’Avvocato era una sola, e non c’era posto per letture critiche. Qualche anno fa si collaborò a un documentario, con la regia di Giovanni Piperno, cercando di scrutare un po’ dentro l’abusato mito agnelliano, e soprattutto attorno a un misterioso fratello Giorgio, che era stato epurato dalle biografie ufficiali. Forse picchiatello, certamente rinchiuso in manicomio, non amava l’Avvocato, tanto che gli sparò pure un colpo di pistola, sempre forse. Su questo capitolo era calata la damnatio memoriae, il personaggio era stato tagliato dal girato come oggi Kevin Spacey in produzioni già fatte; ed era il segno dell’efficacia della Agnelli Entertainment sullo storytelling di famiglia.

  

Era anche, però, un format che aveva i suoi vantaggi a livello di sistema-paese. C’era comunque un ufficio stile a Torino: l’età della deferenza, per esempio, mai avrebbe tollerato le ciabattate odierne tra Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti. All’epoca, il top della violenza era infatti il nomignolo malevolo. Agnelli ne inventò tanti, per calciatori-politici-imprenditori. Scalfari si inventò invece un “Avvocato di panna montata”, proprio su Agnelli: e ci si indignò per anni.

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