Gianni Agnelli (foto LaPresse)

Agnelli d'America

Michele Masneri

E’ uscito negli Stati Uniti il film che racconta i miti e i mitomani che ruotavano attorno all’Avvocato. Lo vedremo su Sky nel 2018

In mancanza di una serie, della nostra unica “Crown” possibile, è uscito su Hbo in America in questi giorni “Agnelli”, un nuovo documentario sull’Avvocato, che servirà soprattutto di ripasso per le nuove generazioni che probabilmente ignorano chi sia stato poi l’erede di una cosa che si chiamava Fiat e che rese grande l’industria italiana nel Novecento, anche se venne ricordato più che altro per l’orologio sul polsino.

 

Il film, diretto da Nick Hooker e con produttore esecutivo Graydon Carter, ex direttore di Vanity Fair, è passato alle Giornate degli Autori alla Mostra del cinema di Venezia e andrà poi in onda su Sky Atlantic l’anno prossimo. Il film, molto agiografico, con tanto materiale nuovo fornito evidentemente dalla famiglia, soddisferà i fans: ci sono filmati per feticisti con interni a Villar Perosa con tutti i Balthus (oggi sarebbero vietatissimi in quanto arte pedofila), interviste al fondamentale scrittore di ricchi Bob Colacello, più tutti i refusi deliziosi di quando l’America parla dell’Italia. Non può mancare la citazione del “Gattopardo”, “cambiare tutto perché non cambi niente” attribuita a Giuseppe di Lampedusa (Tomasi salta), qualche Rattazzi nei sottopancia diventa Ratazzi con una sola T, mentre di tutti si omettono i titoli tranne che di Nicola Caracciolo, storico e cognato, di cui salta fuori un “don” nobiliare da Due Sicilie (mentre gli utenti più sprovveduti penseranno a un sacerdote). Il fondamentale allievo di Russell Page, Paolo Pejrone, diventa invece solo “the gardener”. Mah.

 

C'è l'aneddotica retriva, a partire
dal "don't forget you are an Agnelli" della babysitter Mrs Parker. Ci sono le due sorelle superstiti

C’è poi tutta l’aneddotica retriva, dal “don’t forget you are an Agnelli” della babysitter Mrs Parker che esponeva i pargoli alle brume torinesi micidiali che ne temprarono il carattere. Ci sono le due sorelle superstiti, Maria Sole e Cristiana, una rugosissima e divertita, l’altra con la faccia spianata e quasi senza bocca. E’ anche un notevole campionario d’acconciature e parrucche, stili tricologici novecenteschi: Lee Radziwill, sorella di Jackie Kennedy, con in testa una cofana tipo plum cake marmorizzato, che smascella alcune frasi incomprensibili sul fatto che “Gianni” chiamasse sempre al mattino presto. C’è Valentino Garavani sublime e carbonizzato, con alta capigliatura leonina, che si inchina ad Agnelli maestro di stile. Ci sono personaggi mai sentiti e probabilmente mitomani, una mrs Jackie Rodgers degli anni giovanili, modella, che ripete tutto il tempo che Gianni era un cocainomane e che purtroppo di ricchi così non ne fanno più, oggi, perché i ricchi di oggi sono troppo impegnati a fare soldi invece che divertirsi. Storie inverificabili, tipo: “Sapevo che stava al Grand Hotel con Anita Ekberg e che non chiudeva mai la porta. Entrammo: la stanza era in penombra, c’era una musica di sottofondo e lui e Anita erano a letto, nudi. Lei urlò per cacciarci dalla stanza, con quel petto enorme che ballonzolava su e giù. Ma la cosa più bella è che, il giorno dopo, Gianni mi chiamò per dirmi che si era divertito e che la nostra sorpresa gli era piaciuta tantissimo”.

 

Probabili mitomani: c’è una signora Anna Mucci mai sentita prima che posa sotto un suo proprio ritratto giovanile per essere più plausibile, e sostiene che l’Avvocato l’andasse a prendere in veliero per portarla a Capri, col sottopancia “former mistress”, mah. C’è una signora Marina Branca che è la nostra preferita, speriamo della branche del Brancamenta, che dice “la vanità? L’ha inventata lui”. Ma soprattutto, amica di scorribande di Gianni e Marella, teorizza un manifesto programmatico d’epoca per tante mamme e famigliole d’oggi che si portano i pargoli in ogni dove, al bar e in ufficio e in ristorante: “I bambini non li vedevamo mai! Eravamo troppo impegnati a divertirci! Eravamo as-sen-ti!”, dichiara senza pentimenti.

 

Un'amica di scorribande di Gianni
e Marella: "La vanità? L'ha inventata lui". E sui figli: "I bambini non
li vedevamo mai!"

A casa Agnelli poi questa assenza non andò benissimo, col suicidio tremendo di Edoardo, primogenito dell’Avvocato, gettatosi da un ponte una mattina del 2000, con indosso solo il pigiama, dalla casa che abitava, villa Bona, ex garçonniere del padre tutta decorata con dei Rauschenberg e dei Moore. Qui il padre la illustra a un intervistatore tv americano, “è così rilassante venire qui per degli appuntamenti sotto il sorriso di Marilyn”, sotto una grande pittura in acrilico della bocca più invidiata d’America. Dal suicidio del figlio bistrattato e sensibile com’è noto l’Avvocato non si riebbe più.

 

Però, che inglese perfetto. Gianni l’aveva perfezionato soprattutto con Pamela Harriman, figlia di un diplomatico americano e già nuora di Churchill. Lui le comprò molti vestiti, lei gli regalò molte relazioni internazionali e qualcosa di simile a un royal accent (ma per tutto, il libro di riferimento resta “Casa Agnelli” di Marco Ferrante, Mondadori). Gianni del resto aveva neanche tanto misteriosamente passato la vita nella costruzione del suo personaggio, suo e della moglie. “Being Gianni Agnelli” era un’operazione che richiedeva molte energie; la moglie araldica all’inizio non lo capisce e viene spedita a Venezia dalla leggendaria Lily Volpi, quella che fece costruire la casa palladiana di Sabaudia, per capire come si riceve e come si sopporta.

 

E da lì, case e barche e abiti favolosi, arte e sartù globali, appuntamenti coi sarti e con la storia, Black and White Ball con Truman Capote, in barca con Truman Capote – Marella era poi uno dei “cigni” dello scrittore americano, e una delle perdite più gravi quando sconsideratamente lui fece uscire la prima parte di “Preghiere esaudite” sputtanando tutte le sue amiche che lo isolarono. Marella però effettivamente viene poco maltrattata nel libro, lei era stufa secondo noi già da prima, quando lui si porta in tutti i luoghi e tutti i laghi l’improbabile moroso bancario, definito da chiunque – da Vidal ad Arbasino agli stessi Agnelli – la persona più noiosa del mondo. Oltre che brutto e di mezza età. Marella coglie così probabilmente la palla al balzo del libro per liberarsi di “genius”, così Capote veniva chiamato a Torino, dove aveva una sua stanza riservata a Corso Matteotti con marmi e pulsantiere per chiamare servitù skillate accaventiquattro.

 

Anche nel palazzo di campagna, Villar Perosa, un lavorio incessante, peggio che per una diga cinese. Raccontò sempre Marella in uno strano libro Adelphi uscito qualche anno fa, poi ritirato forse a causa di gossip sfuggiti di mano, poi riedito (“Ho coltivato il mio giardino”), l’immane opera della bonifica agnelliana. Assistita da architetti consulenti geologi giardinieri la coppia sterra boschi, incanala torrenti, devia fiumi, sposta laghetti, svelle pareti. Consumando energie notevolissime. Molto tempo sottratto alla Confindustria e alla Scala Mobile e alla progettazione di veicoli – che infatti sforna le micidiali Arna, 128, Ritmo - viene sacrificato invece a una certa piscina che deve assolutamente riflettere “i verdi e i grigi delle montagne attorno”; si consultano i massimi esperti mondiali, alla fine Gae Aulenti decide che l’unico colore possibile per questa rifrazione è l’arancio.

 

Un inglese perfetto. L'aveva perfezionato con Pamela Harriman, figlia di un diplomatico americano e già nuora di Churchill

Ma poi l’Avvocato dall’immancabile elicottero si accorge che la piscina di quel colore «sembra una grande carota», e infatti non vi nuoterà mai se non nel giorno della defenestrazione del fratello Umberto “come per lavarsi da uno sporco esistenziale, da qualcosa che non voleva fare”, chiosa senza timore d’abuso di metafora nel film la giornalista Vendeline von Bredow.

Ogni tanto tra i tweed e le cotonature viene fuori la leggendaria cattiveria agnelliana, come quando, intervistato per una televisione inglese agli allenamenti della sua Juve, l’Avvocato dice pressappoco di un giocatore, lì accanto, “questo qua mi è costato un milione di dollari ma lui non lo sa”, con telecamera in soggettiva sulle parole inglesi arrotate dell’Avvocato e lo sguardo bovino del povero giocatore non anglofilo. Oppure nelle parole dell’amico banchiere David Weill, cacciato dal consiglio di amministrazione della Fiat quando negli anni Settanta entrano i libici, che non gradiscono un ebreo in cda, e l’Avvocato gli dice proprio, ti dispiace andartene? C’è il maggiordomo inglese, Stuart Thornton, che racconta il suo coming out con l’avvocato. Quando lascia la moglie per mettersi con un giovanotto, la prima persona a cui lo dice è il suo principale, perché “abitando a casa sua, mi sembrava giusto”. L’Avvocato apprende la ferale notizia apparentemente impassibile, ma poi corre a telefonare al suo amico duca di Beaufort per scatenare subito dei gossip globali.

 

Come in tutte le saghe familiari, anche tanta tragedia, o sfiga. Come per Giovanni Alberto Agnelli, ossia Giovannino, figlio di Umberto, morto vent’anni fa: era l’erede, era il John John Kennedy di Torino, perfetto, belloccio, bilingue, moglie wasp, con vena socialdemocratica. Walter Veltroni qualche giorno fa ha scritto sul Corriere un ricordo del “mio amico Giovannino”, “era un ragazzo, aveva trentatré anni e un futuro meraviglioso davanti. Era bello, ricco, giovane, simpatico. Gli dèi sembravano essere stati generosi con lui. Ma poi si sono ripresi tutto. Tutto in una volta, con fretta e brutalità”.

 

Oggi pare poco immaginabile, tutta questa smania di matrimoni giusti. Gli Agnelli allora erano davvero "Italian Royalty"

Giovanni Alberto doveva essere il rampollo designato non solo a continuare la dinastia ma anche a sanare micidiali ferite – in quanto figlio del fratello Umberto, di molto più giovane, sempre bistrattato dall’Avvocato, e infine meritevole del suo turno, tipo Carlo d’Inghilterra. I rapporti tra i due fratelli, questo il film non lo dice, non erano sempre deliziosi; quando Umberto si sposò, l’Avvocato fece in modo di finire con la sua Ferrari proprio sopra il banchetto nuziale, travolgendo tutti. Molte differenze caratteriali, anche: l’uso smodato e esibizionista di aerei, elicotteri, motori, propaggini varie “alla James Bond” come dice il fichissimo nipote Lupo Rattazzi. Mentre Umberto coltivava un understatement più torinese, il suo “top” era una Fiat 131 station wagon. Che vita grama, però: quando finalmente è il suo turno, il banchiere Enrico Cuccia (altro che Etruria) impone alla famiglia Cesare Romiti, manager romano che nel documentario viene fuori un po’ come uno spicciafaccende (forse se la prenderà). Anche Cuccia si prende un po’ di improperi: Gigi Gabetti normalmente molto urbano dice che “Cuccia era un siciliano, ha la capacità di far succedere le cose. Non sai bene come, ma alla fine succedono”.

 

Piangono poi un po’ tutti nel film, forse perché alcuni molto anziani: piange Carlo Callieri ricordando le morti tremende dei dirigenti Fiat negli anni di piombo; piange Gabetti, da sempre consigliere della Real Casa, piangiucchia pure il normalmente roccioso Henry Kissinger, già segretario di stato americano di Nixon, volto poco umano di politica estera. Ride invece Maria Sole, sorella dell’Avvocato maritata Campello, poi sindachessa del villaggio umbro di Campello per dieci anni con derive plebiscitarie. Un vezzo agnelliano era infatti quello di fare i sindaci, non potendo essere feudatari, dei luoghi su cui regnavano. Susanna Agnelli – che inopinatamente nel documentario non c’è – fu sindachessa di Monte Argentario per tanti anni, portandosi in dote anche il moroso Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, che part time e pro bono dava un’occhiata ai bilanci comunali (oggi, chissà che commissioni d’inchiesta aprirebbero).

 

Rimasta vedova, Maria Sole poi s’era invece rimaritata Teodorani Fabbri; gli Agnelli sposavano infatti solo aristocrazie dai conti in su, e pare davvero difficile da immaginare oggi tutta questa smania di nobilitazione e legittimazione. Era proprio un’altra borghesia ormai scomparsa: dei fratelli Agnelli, Gianni sposa una principessa Caracciolo, Maria Sole un conte Campello e poi appunto un (duca) Teodorani; Cristiana un Brandolini d’Adda, Umberto prima una Piaggio, senza blasone ma con la Vespa, poi rimedia in seconde nozze con un’altra Caracciolo. Susanna un conte Rattazzi e Clara un vero principe del Sacro Romano Impero (Tassilo von Fürstenberg) e non contenta poi un delizioso signore mantovano, conte per finta, ma più vero del vero (Giovanni Nuvoletti, che poi farà soprattutto un cameo da chirurgo venale nel “Medico della mutua” d’Alberto Sordi).

 

Oggi pare davvero poco immaginabile, tutta questa smania di matrimoni giusti, coi Windsor che acconsentono a nozze con attrici californiane in ciabatte, e però bisogna capire che gli Agnelli allora erano davvero “Italian Royalty”: così nel film colpisce ancora il funerale di Stato tributato all’Avvocato nel 2003, con corazzieri e alabardieri e corone, e nessuno che ha niente da dire. Mentre per il povero conterraneo Vittorio Emanuele III dopo settant’anni ci si indigna ancora per i trasporti con volo militare, invece che su un pratico aereo Ryanair. Solo perché verticalmente svantaggiato, e fascio.

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