Il pulpito da cui i moralizzatori linciano Boschi. Debenedetti vs GdL

Al direttore - C'è questa merchant bank smontata da D'Alema. Forse non parlavano inglese?

Giuseppe De Filippi

 

Sulla commissione banche il Pd ha commesso diversi errori e anche Maria Elena Boschi ha sbagliato a non aver rivendicato il suo diritto a difendere la banca del suo territorio. Ma in tutto questo, in questa non storia di Etruria, ci sono delle piccole storie che riguardano i linciatori di Etruria che fanno sorridere. Il Movimento 5 stelle ha trasformato Federico Ghizzoni in un eroe del sistema finanziario italiano, dopo averlo inchiodato nel 2015 come uno dei principali “responsabili della crisi italiana” (Danilo Toninelli, 14 novembre 2015). Federico Ghizzoni si è convinto a diventare il principale accusatore del Giglio magico senza avere avuto neppure l’accortezza di ricordare che il governo guidato dal Giglio magico nel maggio del 2016 diede il via al famoso fondo Atlante che permise a Unicredit – che prima del fallimento delle banche venete si era impegnata a intervenire come garante per l’inoptato della Popolare di Vicenza – di non doversi esporre in modo solitario in una ricapitalizzazione molto rischiosa (Unicredit, scrisse il Wall Street Journal nel maggio del 2016, poche settimane prima dell’arrivo di Mustier al posto di Ghizzoni, era “The Unnamed Beneficiary of an Italian Bank Bailout”). Un giornale posseduto da un editore la cui famiglia aveva una società che faceva parte di una joint venture con una società austriaca che risulta essere ancora oggi la società più esposta con Mps (600 milioni di euro) offre grandi lezioni su come ci si relaziona in modo trasparente con le banche (ohibò). Lo stesso vale per un altro giornale che in nome di un conflitto di interesse perenne con le banche, sue azioniste esplicitamente ieri implicitamente oggi, oggi si auto proclama massimo interprete della giusta distanza da adottare con il potere finanziario. Infine, last but not least, c’è il sublime Massimo D’Alema, che quando fu a Palazzo Chigi guidò l’unica  merchant bank  dove non si parlava inglese, e che oggi diventa il fustigatore massimo dell’interventismo della Boschi (“Dal caso Boschi emerge il peso un gruppo di potere e anche una certa spregiudicatezza nell’uso del potere”) senza ricordare però che ai tempi del (sacrosanto e legittimo) tentativo di scalata di Mps da parte della Unipol di Giovanni Consorte (“vai Gianni, facci sognare!”) rimproverò i giornali per aver trasformato una non storia in uno scandalo politico, al punto di arrivare a sfogarsi con i suoi collaboratori con frasi di questo tipo: “Questa storia mi preoccupa. Se si continua così rischiamo una vera e propria crisi, a due mesi dalle elezioni. Se qualcuno getta benzina sul fuoco invece di aiutarci a spegnerlo – riferì Massimo Giannini in un retroscena del gennaio 2006 – qui crolla tutta la baracca. Le alleanze si fanno se sono sostenibili. Io non mi alleo con chi sospetta che il nostro sia un partito di delinquenti. In queste condizioni è meglio lasciar perdere. Tanto c’è il proporzionale, no? Ognuno vada per conto suo. Giochiamo con tre punte anche noi, come il Polo. E poi vediamo chi vince…”. O tempora, o mores. Diciamo.

 

Al direttore - L’Unione europea vuole sanzionare, giustamente, la Polonia per un pacchetto di leggi che attenterebbero all’indipendenza della magistratura. Attendiamo che analoghe misure vengano adottate anche nel caso dell’Italia; ma per l’esatto contrario.

Giuliano Cazzola

 

Al direttore - “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”. Alla fine, tutto ruota attorno a questa domanda. Domanda che tanto più in occasione del Natale dovrebbe spingere, in primis i cattolici, ad interrogarsi sulla coscienza che ha di sé la chiesa e della sua missione nel mondo, ma anche sul modo in cui essa interpreta la realtà, e di conseguenza sui fini e sui mezzi dell’azione pastorale. Ridotto all’osso il refrain che va per la maggiore è il seguente: le chiacchiere stanno a zero, è con la realtà che dobbiamo fare i conti. E la realtà, come è noto (e non da ieri), è che si è creata una spaccatura profonda tra ciò che la chiesa dice e ciò che una buona fetta di fedeli pensa e (soprattutto) fa. Stante questa situazione, anziché domandarci il perché e il percome si sia arrivati a questo punto dobbiamo riflettere, interrogarci, scrutare i segni dei tempi per capire come parlare all’uomo contemporaneo che dei comandamenti di santa romana chiesa sembra non sapere più cosa farsene. E’ necessario insomma seguire l’evoluzione, il sapersi adattare alla scena cangiante del mondo, saper intercettare, assecondandole, le dinamiche di cambiamento della società. Ma, questo è il punto, sospendendo ogni giudizio sulla realtà. Anche sulla scia di una ben precisa teologia secondo cui il cristiano, laico o ecclesiastico che sia, al pari di Cristo che, incarnandosi, è entrato nella realtà concreta degli uomini, è tenuto a sua volta a vivere nel mondo così com’è, l’analisi si riassume in una semplice presa d’atto: le cose stanno così, inutile stare a cincischiare se i tempi, il mondo e la società siano cambiati in bene o in male. Ciò che conta è che per l’uomo contemporaneo l’asticella della fede è troppo alta (e non certo per colpa sua, che la prima responsabile manco a dirlo è proprio la chiesa). Dal che la domanda se non sia forse il caso di abbassarla un po’, l’asticella, smettendola di caricare sulla vita delle persone già gravate da mille difficoltà fardelli che non possono portare. Ma è proprio qui che sorge il dubbio: siamo proprio sicuri che sia questa la strada da percorrere? Non si corre seriamente il rischio che ciascuno si senta legittimato a vivere come meglio crede, senza alcuna necessità di convertirsi e cambiare vita? Cosa vuole fare la chiesa del Terzo millennio: continuare nella missione che Cristo le ha affidato, che è quella di salvare il mondo, cercando di condurre ed elevare gli uomini alla statura del Vangelo, o abbassare il Vangelo alla statura degli uomini, semplicemente accompagnandoli con discrezione nella loro fatica quotidiana quasi che essere cristiani o no sia, tutto sommato, indifferente ai fini della salvezza? Il Natale che ci accingiamo a celebrare ha un significato ben preciso, sintetizzato in quello che non a caso si chiama Symbolum fidei, il Credo: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo”. In teologia ci sono molti modi di definire la salvezza cristiana. Ma nessuno come Clemente Rebora ha saputo racchiudere in poche parole l’immensità di ciò che accadde una notte di duemila anni fa: “Egli, il Bimbo diritto, venuto a rapire quel che c’è di materno nel cuore di pietra dell’uomo, a farlo di plebeo superno, se avvenga che irrompa e prorompa dal segreto dello Spirito Santo, come Figlio, unicamente amato, il conoscimento del Padre”.

Luca Del Pozzo

 

“Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti. Allora la gente vedrà quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”. Lo diceva Joseph Ratzinger il 24 dicembre 1969, nella conclusione del ciclo di lezioni radiofoniche presso la Hessian Rundfunk, ripubblicati nel volume “Faith and the Future”, editore Ignatius Press. Sulla diagnosi aveva ragione, su quelle che sarebbero state le cure per medicare una chiesa malata anche: il futuro della chiesa, disse Joseph Ratzinger in uno dei discorsi, non risiederà in coloro che cercano affannosamente di adattarsi alle mode del momento e di lanciare slogan orecchiabili, ma nei santi, in grado di vedere più lontano degli altri perché rivolti a Dio. Buon Natale.

 

Al direttore - Davvero, come scrive Galli della Loggia (“Le regole senza più la sanzione”, Corriere della Sera 18 dicembre) – “gli italiani sono in […] larga misura ostili al mercato”? Dipende dalla definizione che si dà di mercato: che non è un mezzo per realizzare giustizia sociale, promuovere la crescita, favorire l’innovazione, né per qualsiasi altro fine. Il mercato è uno strumento per trovare i prezzi delle cose. L’opposto è lo statalismo, in cui è il governo a fissare i prezzi. Noi ne abbiamo avuto un assaggio quando lo Stato possedeva un buon 50 per cento dei mezzi di produzione: dubito che chi per spender meno cambia la sim del suo telefonino, o confronta offerte di viaggio aereo, desideri ritornare ai tempi in cui il vettore era solo Alitalia, il telefono solo Stet, e per avere un allacciamento elettrico bisognava attendere mesi. E infatti Galli della Loggia precisa: “Ostili, per come il mercato funziona qui da noi”. Il mercato funziona male quando gli è impedito di fare il suo mestiere, trovare i prezzi. Succede quando il mercato o non c’è, perché lo Stato è sostanzialmente monopolista (Poste, servizi comunali, scuole, sanità), oppure non funziona, perché lo stato non lo consente temendo di inimicarsi interessi organizzati. Sono quelli di alcune categorie (notai, farmacisti, taxisti, albergatori), e quelle di alcuni sindacati, quando proteggono i pensionati o pensionandi a scapito dei giovani, quando difendono gli insider “proprietari” del proprio posto di lavoro contro gli outsider, quando sostengono i dipendenti pubblici che rifiutano di essere premiati in base al merito. I deficit di mercato che ne risultano sono, vedi caso, proprio quelli che denunciano Giavazzi, Panebianco (e qualcun altro). Com’è possibile che siano queste le cause dello “statalismo” per una “larga misura degli italiani”, quorum anche Galli della Loggia? Le privatizzazioni, che critica, furono l’esito della vendita (con procedura a evidenza pubblica) a soggetti necessariamente “nuovi” del settore (Benetton, Agnelli), poiché lì la presenza dello Stato aveva precluso l’imprenditoria privata. Nell’interesse dei cittadini tutti, perché così prima si evitò che insieme all’Iri fallisse l’Italia e poi si riuscì a entrare nell’euro; con l’approvazione dei risparmiatori che corsero a vendere i BOT per comprare le azioni delle aziende privatizzate, tutelati anche dall’obbligo di inserire amministratori indipendenti nei cda. Le autorità di regolazione, che giudica “quasi sempre inette”, sono articolazioni della Pubblica amministrazione: sarebbero meno “inette” se, invece che da votati dal Parlamento, fossero formate da burocrati? Le regole del mercato del lavoro che hanno riportato nella media europea il numero di ricorsi in giudizio, riguardano il reintegro in casi di recesso dal contratto per giustificato motivo economico: cosa c’entrano con le condizioni di lavoro in settori “nuovi” dove scioperano magazzinieri di Amazon, corrieri di Deliveroo e piloti di low cost? Da sempre miglioramenti di salario e di contratto se li sono guadagnati i lavoratori lottando, non aspettando che fossero octroyé dallo Stato: sbagliavano? Da dove viene questo nostro surplus di statalismo? Tra protezionismo, corporativismo, autarchia, partecipazioni statali, interventi straordinari, presenza del maggior partito comunista di occidente, questo paese di mercato ne ha conosciuto poco; perché la parola “concorrenza” entrasse, per giunta indirettamente, nella sua Costituzione ha dovuto attendere più di mezzo secolo; è per path dependance che molti, non per caso soprattutto in certe zone del paese, siano portati a credere che lo statalismo sia “il solo mezzo per porre rimedio a una situazione di svantaggio”. Invece offrono solo all’opposizione, soprattutto a quella a corto di altri argomenti, il pretesto per cavalcare, e ingigantire, questo sentimento. Un po’ come succede con l’uscita dall’euro.

Franco Debenedetti

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