lingua e antilingua

"Un sacco" è bello. Ma anche no

Mario Fillioley

E’ una delle poche espressioni gergali sopravvissute nel corso di generazioni. I ragazzi però la usano anche in una verifica di storia. Le fatiche degli studenti (e di un prof) per liberarsi della “scuola interiore” e dei suoi paradossi

Certe volte i ragazzi scrivono “un sacco” dentro a una verifica di storia. “Un sacco” non è un’espressione con cui io ce l’abbia particolarmente, anzi mi piace, la uso, la scrivo, la penso, la dico molte volte al giorno, e ne ho anche una certa stima, perché credo sia una delle poche espressioni gergali sopravvissute nel corso di generazioni: la usava mio nonno, la usava mio padre, la uso io, la usa mia nipote, forse la usavano pure Cielo d’Alcamo e Stefano Protonotaro, non lo so. Quando, dove e come si usano certe parole è, credo, il problema lessicale più evidente degli adolescenti che ho in classe. 

 

“Mi è piaciuto un sacco” è un’espressione che lascio passare spesso, certe volte un po’ mi fa venire prurito, però di solito, nella maggioranza dei contesti mi risulta in qualche modo ammissibile, a volte perfino adatta, per esempio se stiamo commentando un libro che abbiamo letto o un film che abbiamo visto, però come faccio a farla passare in una risposta di storia che dice: “Durante il biennio rosso si verificarono un sacco di scontri tra sindacalisti e forze dell’ordine”. “Un sacco di scontri”, in una verifica di storia, sembra uno di quei temi di “Io speriamo che me la cavo”: spontaneità, benissimo, però talmente ingenua da suonare quasi artificiale.
“Un sacco di scontri”, associata al biennio rosso, risulta per forza in una deminutio capitis: non fa venire in mente Giolitti o Bava Beccaris o De Pretis o Sinistra e Destra Storiche,  al massimo fa venire in mente i 99 Posse che occupano il centro sociale: Tant mazzat pigliat’ / uè! / tant mazzat piagliat / uè!

 

In effetti, la difficoltà che hanno i ragazzi non sta tanto nel lessico (impoverito, sì, ma non quanto si crede, solo di poco, stando a quanto dicono le Invalsi) quanto nel distinguere tra i vari registri. Il fatto è che per distinguere tra vari registri, devi conoscere più registri. Quanti registri conoscono? Oltre a quello quotidiano, di uso comune e informale, frequentano altri stili? E’ una domanda a cui è difficile rispondere, perché per esempio, i ragazzi ci mettono diversi mesi, a volte anche tutti e tre gli anni di scuola media, per imparare a dare del lei all’insegnante, ai collaboratori scolastici, al tutor, e insomma a tutte le figure di adulto che incontrano a scuola. Non sono sicuro che poi questo dare del lei lo estendano effettivamente anche al di fuori dell’edificio scolastico, a volte li incontro al panificio o al bar e quasi sempre danno del tu al commerciante, o al barista, però è difficile capire se lo fanno perché si stanno rivolgendo ad altri ragazzi poco più grandi di loro o perché non maneggiano ancora bene l’uso del linguaggio formale, probabilmente l’una e l’altra insieme: usare un registro diverso è un po’ una fatica, e se la persona davanti a me è giovane, o semplicemente “non è all’antica”, è una fatica che tendo a risparmiarmi.

 

Questo atrofizzarsi della capacità di assimilare e poi utilizzare registri diversi in contesti differenti potrebbe essere il fatto che la parodia come genere comico “spontaneo” va sparendo dalle classi. Parodizzare uno stile alto è da sempre una delle cose che più diverte gli studenti. Io e miei compagni di classe lo facevamo con l’italiano seicentesco dei “Promessi sposi”: ci mettevamo a bordo di una strada malfamata e aspettavamo che dei malacarne attaccassero briga tra loro. A quel punto effettuavamo una sorta di doppiaggio (oggi direbbero clip sync), facendo dire loro cose come: “Fate luogo, vile meccanico!”.  E quell’altro rispondeva: “E’ or ch’io t’insegni come si tratta co’ ribaldi par tuo!”. 

 

In effetti, non credo che oggi la parodia dei “Promessi sposi” fatta dal trio Lopez Marchesini Solenghi farebbe ancora ridere i ragazzi: se non distinguo l’italiano desueto da quello attuale, lo stile alto da quello basso, quello poetico da quello quotidiano, come parodizzo? Una parte di divertimento, anche scolastico, viene senz’altro meno. In realtà però, quanti registri conoscano gli studenti è un problema del tutto secondario per chi insegna italiano in una scuola. Il problema è spesso più radicale, perché, tornando alla frase di sopra (“Durante il biennio rosso si verificarono un sacco di scontri tra scioperanti e forze dell’ordine”) io, probabilmente in parte per un automatismo inconscio, un’abitudine, una sorta di riflesso condizionato da insegnante, quel “un sacco” lo segnerò in rosso. D’istinto. Forse senza nemmeno accorgermene. Non sono io, è il Novecento. 

 

Dopo però, quando restituirò il compito, tornerò a pensarci su. Sarò obbligato a farlo più che altro dal convincimento inaffondabile del mio studente (e di ogni studente con cui io abbia mai avuto a che fare), secondo il quale il voto di un compito scritto risulta dalla somma algebrica dei segni rossi tracciati dall’insegnante sul compito. 

 

Spinto da questa idea, lo studente mi chiederà conto di quel segno rosso su “un sacco”, chiedendomi se non sia corretto, se si tratti per caso di dialetto o, insomma, che tipo di errore è, perché nel caso in cui “un sacco” fosse corretto, io potrei eliminare il segno rosso, ed eliminando un segno rosso il voto dovrà per forza salire: di poco, magari, ma comunque salire. Dovrò quindi misurarmi con questo “un sacco” che ho segnato di rosso per  inerzia. Risponderò al ragazzo che “un sacco” è un’espressione molto colloquiale, poco o pochissimo o per niente adatta a una definizione come quella di “Biennio rosso”, o comunque inadatta a una risposta aperta di storia, per la quale si richiede meno approssimazione possibile. Solo che questa tirata odiosa non darà nessuna indicazione reale al ragazzo e nessuna soddisfazione a me. Perché c’è dell’altro, qualcosa di molto più importante, che rimane ancora implicito.  

 

Il vero difetto di “un sacco” in quella risposta, dovrei dire al ragazzo, è che suona troppo generico, è un’espressione dozzinale, e nessuno deve mettersi a rovistare tra gli arnesi della sua mente per tirarla fuori, è la prima cosa che trovi, è troppo a portata di mano, e quando uso la prima cosa che trovo, senza stare a cercarne una migliore nemmeno un secondo, di solito significa una cosa sola: strafottenza. Qualcosa, in “un sacco” dice al me lettore di quella risposta qualcosa che suona come: non me ne importa niente, e allora io, in automatico, finisco per segnare di rosso non tanto l’espressione “un sacco” ma una cosa più immateriale che potrebbe essere identificata solo con concetti astratti come disinteresse, sciatteria, negligenza. Ma tutto questo Alice non lo sa, e lo studente tornerà al posto poco convinto, o meglio rafforzato nella convinzione che la valutazione dei compiti in classe di italiano sia puro arbitrio: “Al professore non piace un sacco e lo segna”. Questa sarà l’unica cosa che ricorderà di questo compito in classe e la terrà a mente per la prossima volta. Anzi ne farà una regola universale: “A scuola, nelle cose di scuola, UN SACCO non si usa, è un errore”. Un errore significa un segno rosso sul compito, e nella testa di tutti i ragazzi un segno vale mezzo punto, forse addirittura uno, e la cosa più kafkiana di tutte è che se piglio un compito in classe qualunque e mi metto là a contare tutti i segni e poi faccio una tabella di conversione segno/decimale di voto, risulta sempre esatta: è una maledizione. 

 

Il vero problema lessicale nelle classi (almeno nelle mie) è esattamente questo. Un equivoco. L’equivoco alla base di tutto. Un equivoco che è appunto un equivoco ma che, per una maledizione, un sortilegio, un incantesimo, trova ogni volta conferma. Lo studente dopo un iniziale moto di ribellione, si acquieta nella certezza, appena consolidatasi a seguito di questo segno su “un sacco”, che esiste una lingua “normale”, quella che lui parla in giro per la città e con la famiglia e gli amici e al campetto di calcio, e che comprende espressioni come “un sacco” e la lingua che si parla a scuola, che è appunto una lingua confinata alle interrogazioni, le verifiche, i temi, i riassunti, dai quali l’espressione “un sacco” è stata espunta in quanto “non conforme”, estranea, troppo bassa. 

 

In realtà, gli insegnanti ogni giorno tentano di far pulizia del linguaggio da manuale di storia o di letteratura o di geografia. Lottano ogni giorno per liberare i ragazzi dal demone che si impossessa di loro ogni volta che devono rispondere oralmente o per iscritto a una domanda, Satana che li fa parlare come il libro, gli fa dire barbabietola da zucchero, gli fa usare il passato remoto nei temi, li fa “ripetere” quello che c’è scritto sul libro di testo. La scuola interiore, quell’archetipo inscalfibile che tutti gli studenti si portano dentro, lo convince che “ripetendo” prenderà un bel voto, anzi che usando le espressioni e le parole usate dal libro l’insegnante dovrà dargli un bel voto (“HO RIPETUTO TUTTO, DEVE METTERMI NOVE!”).

 

Il paradosso è proprio questo: devo lottare contro questa antilingua per fare in modo che il ragazzo si esprima, cioè “parli” davvero di quello che ha letto, studiato, visto, ascoltato, ma per la stregoneria di cui sopra, devo in qualche modo avvisarlo che certe espressioni, in certi contesti, risultano inadeguate. Di più: rovinano tutto, perché “Un sacco”, in una risposta tutto sommato ben orchestrata, stona e, di fatto, rovina l’armonia, mette in crisi il giudizio positivo. In un accordo, o in una melodia musicale, del resto, basta sbagliare una sola nota per far dire all’ascoltatore: mamma mia questo non sa suonare/cantare. E’ un dilemma. Glielo dico o non glielo dico? Segno o non segno?  Posso non segnare: si è espresso come gli chiedo di fare, cioè liberamente. Se scrive “un sacco” tutto sommato è un buon sintomo, significa che comincia a liberarsi dalle pastoie del didattichese, del sussidiarese, dell’interrogazionese, del verifichese. Sta inciampando, ma il ragazzo si farà, anche se ha le parole strette. Oppure no, al contrario: posso segnare, anzi devo segnare. Il ragazzo non si farà mai, se non gli allargo le parole, se non gli dico che là, in mezzo a quella frase, “un sacco” non ci va, è un pugno in un occhio, e, sì, parlare come parla il libro è stupido e irritante, ma imparare a parlare bene, o a parlare meglio, è comunque necessario.

 

Io me la cavo malissimo con le scelte, figuriamoci coi dilemmi, mi si paralizza tutta l’anima concupiscibile, mi immobilizzo come il coniglio quando vede i fari della macchina. Se mi ritrovo quasi sempre sulla seconda strada, cioè quella di segnare “un sacco”, è appunto per quell’automatismo novecentesco che mi scatta. Ogni volta che la imbocco però si rivela così tortuosa e in salita che me ne pento, o comunque mi scoraggio.

 

Il ragazzo reagirà come ho già detto: vabbè’, la prossima volta userò il passato remoto e parlerò della barbabietola da zucchero, così il prof sarà contento. Oppure, in certi (pochi) casi, si incuriosirà, e finiremo per parlare del fatto che esistono dei registri stilistici e che ognuno di questi registri richiede un certo insieme di parole (un lessico, appunto), che siano coerenti con il registro scelto. Sembrerà l’inizio di un fruttuoso dialogo platonico, ne avrà inizialmente tutta l’aria, ma poi il ragazzo vorrà sapere come cavolo si fa, allora, a riconoscere questi registri. E io gli dirò che c’è un modo solo: leggere, ascoltare, guardare di tutto. Il ragazzo allora chiederà come, dove, cosa deve leggere, ascoltare, guardare, e con questa domanda mi starà implicitamente chiedendo: a che pagina? Di quale libro? Grammatica? Antologia? Storia? Geografia? Io gli risponderò che no, che anzi in tutti quei libri viene utilizzato un unico registro, che è quello che lui (giustamente) respinge e non capisce, e al quale sopravvive solo imparando a memoria interi periodi e tenendoli in mente per quelle tre ore che servono alla verifica o all’interrogazione, per poi dimenticarli (con molto piacere) per sempre. Gli dirò che per imparare questi registri va bene tutto, dal teppista del suo quartiere alla Divina Commedia di Dante, vale tutto, canzoni, cinema, fumetti, saggi, romanzi, poesie, valgono quelli che leggiamo e guardiamo e ascoltiamo a scuola come esempio e valgono quelli che legge, guarda e ascolta per i fatti suoi, e il confine tra le due cose, nella nostra epoca, è sempre più labile, anzi è proprio saltato, quindi vale tutto, davvero tutto, più ce n’è meglio è, perché più ne sperimenti più riesci a distinguere gli insiemi coerenti di parole e tono, cioè i registri.

 

Lo sguardo dello studente a quel punto si farà tra lo stordito e il rabbioso: quindi lei, prof, mi sta dicendo che per prendere un bel voto non mi basta stare seduto qua ad ascoltare lei e le cose insulse che ci propone, ma devo pure passare il resto del giorno a infliggermi punizioni per i fatti miei? Lei, prof (il ragazzo, nel tempo che ci avete messo a leggere questo pezzo, ha imparato a dare del lei) in pratica mi sa dicendo che LA SCUOLA NON BASTA, anzi che quasi NON SERVE. Eh, penserò io, e ora? E mentre lo penso farò a pezzi tutte le matite rosse che ho nel portapenne. Quindi lei, prof, non mi giudica per quanto ho studiato in vista di questa verifica, ma in base a chi sono, a come parlo, penso, scrivo e quindi in base a cosa ascolto, guardo, leggo o peggio ancora a cosa si guarda,  si ascolta, si legge (o non si guarda, non si ascolta, non si legge) nell’ambiente in cui vivo? Questo si chiama classismo, prof, o razzismo, o mafia (spesso i miei studenti dicono mafia al posto di prepotenza, abuso di potere ecc).

 

Non ne esco fuori. Tutto quello che leggo nello sguardo dello studente mi sembra vero, reale, giusto, e quindi non posso neanche farne uscire fuori lui. L’unico passo avanti che sono riuscito a fare in questi anni di insegnamento è identificare una specie di nemico comune, mio e loro, dei ragazzi: la scuola interiore. Siamo tutti prigionieri suoi, il brutto poter che ascoso a comune danno impera. Tutti, ma proprio tutti, anche i loro genitori e i miei e il personale ATA e i presidi e i dsga e l’usciere del ministero e il ministro dell’Istruzione e del Merito. Tutti abbiamo dentro questo imprinting antichissimo: LA SCUOLA, la lezione, il libro, la cattedra, il compito in classe, l’interrogazione, il voto, la lavagna di ardesia, il gesso, la penna rossa, i decimali, la media. Sulla carta, tutto questo è scomparso dalle scuole da almeno trent’anni, non esiste più, né sulle linee guida del ministero né dentro le aule. 

 

E’ ancora fortissimo però dentro le nostre menti, sotto forma di immaginario e sotto forma di idea platonica: qualcosa di mentale che è molto più forte della realtà concreta, una scuola  (la scuola che abbiamo in mente da prima ancora di nascere) che consideriamo la vera scuola proprio in quanto archetipica. E’ come se, tolte tutte le superfetazioni, gli infingimenti burocratici e legali, le sceneggiate che si recitano, quelle secondo cui il voto non conta o va soppresso, il ragazzo è al centro del processo educativo e formativo, le flipped classroom e il Learning by doing, tutti quanti, da qualche parte dentro noi stessi, credessimo a una verità antica e inconfessabile: la scuola è ripetere la lezione, la scuola è otto più e sette meno meno, la scuola è il maestro Perboni, la scuola è Roberto Vecchioni a La7 il sabato sera.

 

Possiamo legiferare, e forse lo facciamo troppo e troppo spesso, ma nessuna legge o riforma scolastica potrà mai modificare la scuola interiore. Della mafia si dice che non si sconfigge con le leggi: nemmeno la scuola.   Per modificarla, ci vorrebbe la stessa ricetta che propongo al ragazzo quando mi chiede come imparare a usare i vari registri: la scuola può essere salvata solo da tutto quello che sta fuori dalla scuola. Solo la non-scuola, tutto ciò che scuola non è, può salvare la scuola. La scuola è un’entità paradossale: è un luogo di detenzione e di isolamento (e deve esserlo, è giusto che lo sia), è completamente separata dal resto della città e del mondo, ma per funzionare ha bisogno che funzioni tutto ciò che sta fuori da essa. 

 

Forse per avere davvero una scuola dobbiamo liberarci della scuola. Dobbiamo inventarci un’altra cosa, che con la scuola non ha più NULLA a che fare, nemmeno, o soprattutto, la parola con cui identificarla: chiamiamola in un altro modo, chiamiamola “un sacco”.   

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