L'ennesimo ricorso contro una bocciatura mostra che tra i principali problemi della scuola c'è l'intolleranza ai voti

Mario Leone

Il Tar del Lazio ha invalidato la bocciatura di una studentessa media di Tivoli insufficiente in sei materie. La burocrazia tentacolare e l'ingerenza dei tribunali, la frattura tra scuola e famiglia e la spinosa questione, sempre lei, del rapporto con la valutazione

La bocciatura deve essere “un’eccezione” mentre la regola è la promozione. Così il Tar del Lazio ha invalidato la bocciatura di una studentessa di scuola media di Tivoli giunta allo scrutinio finale con sei materie insufficienti. La notizia – e le relative polemiche - si è diffusa rapidamente tanto che il ministro Valditara ha istituito un gruppo di lavoro per “definire norme più stringenti” che non determinino improprie invasioni di campo.

  

Fatta salva un’attenta lettura delle motivazioni alla sentenza, l’ennesimo caso di ricorso ai tribunali per modificare i risultati scolastici svela alcuni gravi problemi del nostro sistema formativo.

  

 

Negli ultimi anni sono aumentati in maniera esponenziale i ricorsi con bocciature, voti di ammissione, voti d’esame modificati dal giudice di turno. I consigli di classe e le commissioni guardano spaventati al proliferare di azioni legali che riaprono esami ormai conclusi, riconvocano commissioni nei roventi mesi estivi, vanificando e svilendo il lavoro fatto durante un intero anno scolastico. La burocrazia sempre più corposa ha favorito questa tendenza perché all’aumentare degli adempimenti (spesso cervellotici e senza senso) aumenta il rischio di errore procedurale. Basta un cavillo – e gli avvocati sono pagati per trovarlo – e il ricorso viene accolto e la bocciatura o il voto d’esame annullato.

  

È evidente la frattura tra scuola e famiglia, un rapporto privo di stima e collaborazione che permetta di accogliere ragionevolmente le decisioni della scuola. Complessa anche la relazione tra adulto (genitore o docente) e giovane quest’ultimo che denuncia un clima asfissiante creato da professori disinteressati al suo bene e causa della sua scarsa libertà. I docenti spesso non hanno mezzi umani e professionali per accettare la sfida di ragazzi complessi, con un vissuto drammatico.

   

Come è stato possibile giungere a questa situazione? Non esiste un’unica risposta.

   

Un dato macroscopico è la crescente intolleranza a essere valutati. Un problema che scade nel patologico (ansie di vario tipo, gesti di violenza verso altri o verso se stessi) e che trova come unica risposta la contestazione di quella valutazione. A scuola si possono mettere sempre meno voti (soprattutto quelli negativi), si preferiscono le emoticon, i colori o la totale eliminazione dimenticando che il valutare è atto costitutivo dell’essere umano. Lo facciamo costantemente, tutti, quotidianamente. Assaggiando un caffè al bar o guardando un film. Valutare significa dare un valore. Il docente deve avere gli strumenti più opportuni per farlo altrimenti cambi lavoro. Per valutare bisogna accompagnare, mettersi sulla stessa strada del ragazzo ripulendo “il voto” da un puro atto di potere e sottomissione. La valutazione non deve configurarsi come un giudizio sulle persone, perché questo produce disistima, esclusione, emarginazione, demotivazione verso lo studio e verso la scuola. Questo lo diceva don Milani nel 1967. Oggi la scuola è ancora lontanissima da questa impostazione. Le famiglie sono incapaci di mettere in discussione il proprio stile educativo e l’idea che si ha dei propri figli. Si generà così una diatriba sanata dal giudizio di un tribunale. Un amaro epilogo sul delicato processo educativo che fa male a tutti ma in particolare ai poveri ragazzi che sono quelli privi di colpe.

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