L’occupazione del liceo scientifico Volta di Milano (Foto LaPresse)

il foglio del weekend

I ragazzi selvaggi promossi col nove in condotta

Ginevra Leganza

La scuola oggi è a dimensione dei nuovi Lucignoli, ma tanti educatori si preoccupano di non stressarli troppo con i voti (sostituirli con i like?)

Tutti Pierini primi al traguardo del diploma, e tutti premiati col nove in condotta. Il romanzo italiano si scrive sui banchi di scuola. Almeno dai tempi del libro Cuore. E quest’ultimo che è passato è stato l’anno di Franti. Tra proiettili finti sparati ai prof e temini scritti con la schwa, sono proprio i Franti d’ogni ordine e grado – i Lucignoli e i Gian Burrasca – i protagonisti dei mesi di maturità.

Forti di smartphone, like e residui banchi a rotelle (basi perfette da cui mirare in cattedra), loro sono i ragazzi selvaggi promossi col nove in condotta. Come è noto nel caso dell’Itis Viola Marchesini di Rovigo, dove i due scolari sparavano alla prof di scienze con una pistola ad aria compressa e venivano ammessi alla classe successiva. Ma questa è la gioventù, sempre esistita, che sotto sotto quasi fa simpatia. Da una parte ci sono i ragazzi, dunque – e quant’è facile la sociologia da bazar sui Pierini – dall’altra ci sono i prof. Che vagano spersi. Tanto smarriti da non sapere più cosa fare. Spaesati e naufraghi sino all’ultima spiaggia: condonare tutto, abolire i voti e le note (alla faccia del signor ministro del Merito!). Mettersi a fare i ragazzoni anche loro. E questi sì, sono costumi nuovi. Anche se frutto di una costante evoluzione. Chi si stupisce del nove in condotta ai Pierini tenga conto, infatti, che non è da ieri che i voti sono alti e non si boccia più. La percentuale di rimandati in Italia è sempre più bassa. Già l’anno scorso il Miur registrava un calo complessivo di non ammessi: negli istituti tecnici, nei professionali e nei licei, dove i numeri sono in assoluto i più bassi (3,4 per cento). Le statistiche mostrano poi come alla maturità quasi non esista la bocciatura: oggi attestata attorno allo 0,2 per cento e frutto di un leggero e costante calo degli ultimi anni.

Di che stupirsi allora se uno studente romano si matura consegnando un tema con lo schwa? Ovvero con la “e” capotorta del neutralismo di genere, quel segno illeggibile che scriverlo è complicato, pronunciarlo è quasi impossibile (passi pure agli scritti, ma chi si cimenti agli orali con l’indistinto verso vocalico – lo schwa, appunto – forse non sa che nella migliore delle ipotesi ha tutta l’aria di un conato gastrico). Ecco, il nostro amico consegnava un tema puntellato dell’impronunciabile segno. Iscritto al liceo romano Plinio Seniore, a Castro Pretorio, sceglieva il tema d’attualità. Ed era già canovaccio: benché sembri un verso animale o un conato gastrico, si sa che lo schwa è puro attivismo da quartiere alto (e l’attivista sceglie sempre l’attualità; uno che viri sull’analisi del testo è raro, caso da manuale, cigno nero). L’amico sceglieva dunque la traccia d’attualità e scriveva un tema zeppo di “e” capotorte: una per ogni desinenza nelle cinque colonne di protocollo. “Ormai è entrato nel mio modo di pensare”, diceva lo studente Gabriele Lodetti, intervistato da Repubblica, che è sempre il giornale delle prof col cerchietto. Ed ecco che i commissari, al passo coi tempi e col cerchietto, anziché bocciare per evitare la morte per emicrania, correggevano e davano un punteggio (17/20) pari quasi a un otto su dieci. Accipicchia! Sarà che l’importante, appunto, è stare al passo coi tempi. Soprattutto se ci si sente persi – come i prof – in un mondo di teenager fanatici o di Lucignoli. E dunque si capisce che il nove in condotta è il coronamento di una tendenza profonda. Quella di assecondare il selvaggio in ogni sua stramberia: dai finti proiettili agli schwa.

Una maturanda 2023 ci racconta ancora della prof d’italiano che per accontentare gli alunni, nel corso dell’anno, mandava WhatsApp con desinenze in formato asterisco (Car* tutt*). Nel gruppo di classe c’erano giovani transgender cui sarebbe stato impossibile rivolgersi altrimenti. Giovani difficilissimi da smistare nei traghetti in gita ad Atene, fra le cuccette: ché se li mettevi coi maschi non potevano dividerci il bagno e con le femmine c’era il rischio adescamento. Storia vera ed esemplare, questa, di docente spaesata che, non avendo saputo che fare, ha fatto la cosa più semplice: è diventata adolescente anche lei, con gli asterischi e le emoticon. Che poi Saffo fosse “un poeta di Lesbo”, un poeta cioè un maschio, come diceva una sua alunna all’interrogazione, che fa. Sicuro soffriva di disforia pure Saffo. 

Ma a proposito di Lucignoli, c’è da dire che lo spaesamento ha prodotto paesi dei balocchi. Uno di questi è sempre a Roma, nel quartiere di Monteverde. Si tratta del liceo Morgagni, il primo liceo senza voti d’Italia la cui denominazione ufficiale è “Scuola delle relazioni e delle responsabilità”. A dire il vero senza voti è una sola sezione sperimentale. Qui l’esperimento consiste nel sostituire al numero il “dialogo” (qualunque cosa significhi). Ne è fautore un professore di matematica e fisica, Enzo Arte, che spiega come i voti scolastici creino ansia e competizione. Al contrario, andare incontro, assecondare, diciamo pure lisciare il pelo al piccolo selvaggio, potrebbe rivelarsi più efficace. “Gli studenti vengono a scuola col sorriso”, dichiarano i prof. La notizia ci condusse mesi addietro al Morgagni, in via Fonteiana, stessa via dove – prima della fondazione del liceo – fra i Cinquanta e i Sessanta abitò il Pasolini dei “Ragazzi di vita”. E quelli del Morgagni ci sembrarono sempre “ragazzi di vita”, sì, ma delicata. Teneramente selvaggi, ma pettinati. Il tempo di una ricreazione in cortile ed eccone uno. “Beati loro”, diceva il sedicenne iscritto dai genitori in una sezione tradizionale. Beati loro, chi? “Quelli della sezione senza voti! Eccerto che stanno nel chill. So’ tutti rilassati. Prendi un quattro e nun c’hai l’ansia de recuperà. E grazie che te piace venì a scuola”. E grazie.

Da una parte c’è quindi il grande tema dell’ansia: quella che i dati dicono riguardi sempre più giovani (la Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, in linea con l’Oms, rileva in crescita il numero di teenager depressi dopo la pandemia); dall’altra ci sono i professori che non sanno più come muoversi. Sballottolati dall’ansia e dall’esistenza del telefonino. Perché non è solo un fatto di post-sessantottismo, la scuola senza voto: è pure un fatto di “post”. E basta. E’ probabile, infatti, che il prof l’abbia capito che il voto – da uno a dieci – è solo un numero. Un’unità dinanzi alle migliaia di like che a postarlo in posa comica – quello stesso prof – si moltiplicherebbero a dismisura. Sarà che ha compreso quindi che – anche per questo – il voto non conta niente. E tutto il bene e tutto il male si racchiude in un post. In un liceo di Latina lo scorso settembre un’insegnante di sostegno veniva scaraventata a terra per poi finire all’ospedale Santa Maria Goretti: 27 ore in barella. La sfida social consisteva nel far cadere una docente e filmarla. Un’altra collega in sovrappeso veniva immortalata, postata e apostrofata “hashtag maialina”: il bene e il male alla prova dei like.

E forse si capisce perché in questo spaesamento collettivo anche la scuola cominci a parlare la lingua dei post: non più voti ma “caption”. Ossia giudizi in stile instagrammiano. Ermetiche e brevi didascalie. Come avviene al liceo Giordano Bruno di Mestre, dove quest’anno si sperimentava un quadrimestre senza voti ma con giudizi tipo semaforo: “Risultati raggiunti” scritto in verde; “Preparazione da migliorare” scritto in rosso. Passando per i toni intermedi del “non funziona la sintassi” e “la riflessione va approfondita”.  Non numeri – che mettono ansia – ma pennarelli colorati: Stabilo, Giotto, Carioca, Uniposca. Perché questo, appunto, è il paese dei balocchi. E se il numero pesa, è impietoso, oggettivo, il colore sdrammatizza. Ma oltre i colori e oltre Collodi c’è di più. C’è come un vento rousseauiano che spira da Mestre a Monteverde. Col filosofo dell’Emilio e del “buon selvaggio” che esortava i precettori a evitare correzioni affinché lo scolaro si correggesse da sé. Un po’ come accade oggi con la co-valutazione fra compagni di classe.

Un simpaticissimo prof influencer, Enrico Galiano (ideatore della webserie “Cose da prof”, autore del libro “Scuola di felicità per eterni ripetenti”, collaboratore di Rai Gulp, 70 mila seguaci su Instagram), dice che “la scuola dovrebbe smettere di funzionare come un votificio”. “Il voto è tranchant ed è difficile da interpretare” perché “un numero non spiega gli errori e non evidenzia i punti di forza”. Insomma, non esistono voti e non esistono fatti: esistono solo interpretazioni. Solo soggettivismi. “I ragazzi si sentono etichettati e fanno molta fatica a uscire da questa gabbia”, conclude. Ed eccoci – in punto di lapsus – scoprire di che si tratta. La scuola, per com’è pensata, è una gabbia. E gli studenti, dei selvaggi in cattività.

Per carità, a scuola si sa che un bullo è sempre meglio di una spia. Ma se già togli il voto in italiano e in matematica cosa vuoi che sia la condotta? Le marachelle sono guizzi di vita. Ma hanno senso solo nel gioco delle parti. In un botta e risposta di bravate e ammonimenti. E lo sappiamo noi che a scuola non eravamo santi quant’era bello il sette in comportamento che abbassava la media. Una medaglia appuntata al petto per ogni rispostaccia e sigaretta fumata in cortile.

Mista al costume italiano, la scuola senza voti non è ascensore sociale. Ma littorina per i balocchi. Eppure nel mondo c’è tutto. Per dire, c’è una terra promessa dove tutto funziona. Niente numeri e promozione automatica: è il modello svedese, dove sino ai 13 anni nessuno ti può giudicare. Dai 13 in su ci sono le lettere, da A a D (e l’alfabeto è sempre più mite del numero). “Le mie figliastre svedesi non sanno cosa sia un voto, ma sono comunque stressate. Prevedo gioie quando sarà lavoro”. Sono le parole di una ragazza, che non essendo madre ma fidanzata del padre svedese – “compagna” – mostra il giusto distacco. La donna si chiede cosa accadrà quando la vita selvaggia terminerà e il voto (che è vero: non serve a niente) neppure avrà assolto al suo unico scopo: spiegare un po’ cos’è la vita. E cioè quella cosa fatta d’abbandoni, contumelie, tradimenti, licenziamenti… Esami costanti. Voti e giudizi. Ma, appunto, per cogliere la distanza fra una selvaggia terra promessa e un mondo spietato, per capire lo scollamento fra lo stato di natura e la civiltà, ci vuole distacco. Forse il distacco di una matrigna. E come nell’incantato mondo Disney, coi paperi e i topi di cui non era mai chiara la genealogia, fra zii nonni antenati e bis-bis-bis avoli di cui i pargoli discendenti erano cloni più che figli e figliastri, anche qui appare la strega cattiva. Impietosa, distaccata. E’ colei che smonta le nostre fiabe. O almeno ci prova. E anche adesso ci prova a smontare la fiaba del buon selvaggio. E qui s’apre ancora un tema. Perché in questo scenario da Signore delle mosche, coi ragazzi al potere e le fazioni in lotta (i bulli influencer, gli isterici dell’asterisco, i prof sottomessi, i wild boys), fra docente e discente spunta un terzo uomo. Uomo – o donna – senza distacco. Scudiero del bullo, avvocato delle cause perse che alla fine – in un mondo capotorto come lo schwa – sono cause vinte. Come quella di farsi promuovere a pieni voti dopo una sparatoria di pallini e migliaia di like. Lo scudiero è il genitore, s’intende. O chi ne fa le veci. Malato di like anche lui, anche lei. Tradotto: è la madre innamorata del figlio (altro che complesso di Edipo: complessata Giocasta); il padre del ragazzo che “farà grandi cose!”. La donna o l’uomo che – non potendosi perdonare d’aver tirato su un bamboccio – diventa bamboccia anche lei, bamboccione anche lui.  

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