Foto di Riccardo Antimiani, via Ansa 

esperimenti

In America si va a scuola quattro giorni a settimana. In Italia quasi nessuno è d'accordo

Mario Leone

Il nuovo regime scolastico sperimentato negli Stati Uniti nell'epoca post-Covid non sembra poter attecchire nel nostro paese: né secondo gli insegnanti né secondo i genitori 

È la nuova tendenza di molti distretti americani quella di organizzare la settimana scolastica su quattro giorni e non su cinque. Un’iniziativa nata nel vortice della pandemia quando bisognava ridurre spostamenti, contatti e socialità, e in aumento anche in questo inizio anno scolastico. Il dato si registra nelle comunità rurali, in alcuni stati del midwest e del sud. Ma negli ultimi tempi anche decine di distretti in Texas, Missouri, Colorado e Oklahoma hanno optato per questa soluzione.

Sulle colonne del Wall Street Journal è Paul Thompson, professore di Economia della Oregon State University, a chiarire i termini della questione: “Sono già un po’ di anni che alcune scuole americane sperimentano la settimana di quattro giorni – dice Thompson –, un’iniziativa nata per ridurre gli spostamenti degli studenti più lontani, risparmiare tempo e denaro. Non solo. Molti distretti hanno difficoltà a reperire gli insegnanti soprattutto nelle zone rurali”.

 

Dalle periferie questo fenomeno si sta spostando anche in aree più centrali dove il problema dell’assenza di docenti sta creando non pochi disagi. Se da un lato alcune famiglie, gli studenti e i professori accolgono positivamente una tale organizzazione, dall’altro i dati sui risultati scolastici non sono univoci. Christopher Doss, ricercatore presso la Rand corporation, osserva che gli alunni di scuole che adottano la settimana di quattro giorni hanno mostrato un apprendimento leggermente più lento di quelli che frequentano la scuola per cinque giorni. A livello accademico, però, i numeri si allargano pericolosamente. La diatriba tra pro e contro è accesa e ci riporta alla nostra realtà.

 

In Italia, dove l’anno scolastico è ricominciato con i soliti problemi di organico, sarebbe auspicabile una soluzione di questo tipo? “Credo che il problema non sia tanto quello degli effettivi giorni che si passano a scuola quanto piuttosto sia quello della qualità del tempo scuola, dice Massimiliano Fiorucci, presidente della Società italiana di pedagogia, che aggiunge: “Le scelte sono legate ai contesti anche se personalmente ritengo che in alcune aree e territori le scuole rappresentino l’unico presidio culturale, uno strumento di contrasto alle diseguaglianze”. Anche ad Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, non convince un’organizzazione di questo tipo. Il suo giudizio però guarda agli apprendimenti: “Uno dei pochi risultati di cui siamo certi è che più tempo dedicato alla scuola migliori gli apprendimenti. Ridurne i giorni rischia di abbassare ulteriormente il livello di conoscenza e competenza degli studenti italiani, che è già nettamente inferiore a quello degli altri paesi industrializzati. Se il problema è attrarre buoni insegnanti, credo che sia più utile introdurre maggiore selezione all’ingresso, uno sviluppo di carriera per i più capaci e motivati, più formazione e, naturalmente, salari più elevati”. Anche dal punto di vista dei genitori, una riforma di questo tipo sarebbe deleteria. “Noi ci spendiamo perché la scuola rimanga aperta molto più tempo”, sostiene Rosaria D’Anna, presidente dell’Associazione italiana genitori: “Dopo i danni della didattica a distanza, è impensabile una soluzione di questo tipo”. 

 

Nel nostro paese, in verità, pare difficile si possa andare verso una contrazione così forte dei giorni scolastici, cosa per altro che sarebbe molto apprezzata dai docenti, ma il dibattito ci aiuta a rispolverare un principio fondamentale che riguarda l’organizzazione della scuola a tutti i livelli: quello che riguarda la formazione e lo sviluppo delle future generazioni deve essere pensato e strutturato esclusivamente sulle loro necessità. E su nient’altro.  

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