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L'ultima firma sul registro

Anche i prof. vanno in pensione. Qualche idea per la scuola che verrà

Marco Lodoli

Il magone sale, perché nonostante tutto non c’è niente di meglio al mondo delle mattinate in classe. Le lezioni scapigliate, gli istituti di periferia, la lotta con le scartoffie. Il racconto di un insegnante in Vespa e alcune proposte per il futuro

"La vita fugge, et non s’arresta una hora”, scriveva Petrarca in un suo sonetto, sintetizzando in un solo endecasillabo infinite riflessioni sulla fugacità del tempo, e anche su come noi esseri umani troppo spesso sciupiamo i nostri contatissimi giorni. “Mi sembra ieri che…”, sospiriamo, e per un attimo ci rivediamo ragazzi, sospinti dal vento della vita, incerti, speranzosi, confusamente protagonisti di una storia ancora tutta da scrivere. E io mi rivedo in Vespa nel 1980, diretto verso una piccola scuola privata sui colli romani, tra Grottaferrata e Frascati. Avevo ventitré anni e cantando andavo verso una ipotetica assunzione come professore di Italiano e Storia in quell’istituto agrario di cui non sapevo ancora niente. Mi ero laureato pochi mesi prima, con una tesi sulla poesia degli anni Settanta, poi ero andato a Parigi con la mia bella fidanzatina, avevo girato in autostop insieme a lei la Normandia e la Bretagna e al ritorno a Roma mi ero detto: “Adesso devo trovare un lavoro vero”. 

 

Avevo battuto a macchina una pagina di curriculum che conteneva poco o niente, avevo fatto dieci fotocopie e le avevo imbustate e spedite a scuole private e parificate di Roma e dintorni. Dopo pochissimi giorni mi era arrivata la telefonata del gestore della scuola ai Castelli, appena aperta, che cercava insegnanti di tutte le materie. Altri tempi, in cui il lavoro non era ancora un problema terrificante. E così ora volavo incosciente e ottimista verso quel primo colloquio. La scuola era una villetta persa in una stradina laterale, e il gestore era un tipo davvero strano, da poco rientrato dal Sud America e pieno di belle speranze e di spirito d’avventura: nel cortile, in una grande gabbia, girava in tondo un lupo siberiano, e dentro alla scuola c’erano acquari con pesci esotici e piraña, e uccellini coloratissimi che svolazzavano liberi nei corridoi. Non cercai nemmeno di fare bella figura, di vendere chissà quale merce intellettuale, dissi solo che ero pronto a lavorare anche dal giorno dopo: sprizzavo energia, avevo i capelli lunghi e una incomprensibile fiducia nelle mie possibilità. 

 

Gli anni Settanta, anche se di piombo, erano volati via anche loro. Avevo fatto il liceo tra i fascisti del Circeo, affrontando momenti abbastanza duri, e poi, per una assurda serie di circostanze, mi ero ritrovato in via delle Botteghe oscure quando era stato trovato il cadavere di Moro, e su Ponte Garibaldi quando era stata uccisa Giorgiana Masi, e proprio sotto casa mia avevo visto la macchina crivellata di colpi del giudice Occorsio. La sera andavo spesso al cineclub L’Officina, e dopo aver visto mille film formalmente spericolati, intellettualmente arditi e complessi, ero rimasto incantato davanti a un piccolo film di un giovane regista tedesco, Wim Wenders. Il film era “Alice nelle città” e raccontava lo smarrimento di un uomo che vagava per la Germania insieme a una bambina. C’era qualcosa di romantico in quello stupore e in quel vagabondaggio privo di pensieri, e io ebbi l’impressione che fosse un punto di svolta nella mia vita e anche nella cultura del tempo. Come quell’uomo anche io non capivo quasi nulla di tutto quello che accadeva, e come lui sentivo che comunque dovevo prendermi cura di una fragilità, di un’innocenza, di altre vite piccole e indifese. Chissà, forse fu proprio uscendo da quella saletta fumosa che decisi – ma decidere non è il verbo giusto, non si decide mai niente, semplicemente ci si ritrova sulla propria strada – di scrivere un romanzo e anche di provare a essere davvero un insegnante di scuola. 

 

Frequentavo un ispirato gruppo di poeti, Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Paolo Del Colle, e naturalmente Edoardo Albinati, con cui avevo passato tutti gli anni delle medie, del liceo e dell’università. Anche loro si sentivano ormai lontani dalla bufera ideologica degli anni Settanta, da quei linguaggi così astratti e rigidi, e cercavano una nuova naturalezza, una lingua più semplice ed espressiva. Per questo avevamo inventato una piccola rivista, “Braci”, poverissima per necessità e volontà, quasi francescana nella sua nudità. E poi tutti quei poeti, che strano, sono diventati come me insegnanti in scuole di frontiera, periferia o carcere.

Non credo ci sia stata chissà quale vocazione missionaria, solo il desiderio di stare più vicini possibile alla vita nella sua manifestazione più semplice e immediata.

 

Tante volte i miei familiari mi hanno detto: “Marco, perché non fai domanda per insegnare in qualche liceo del centro, al Visconti, al Tasso, al Giulio Cesare, sicuramente lì potresti avere più soddisfazioni, troveresti studenti più attenti e preparati…”. Potrei rispondere che la mia è stata una scelta politica, esistenziale, pedagogica, imbastire qualche nobile discorso sugli ultimi, sui diseredati che più di tutti gli altri hanno bisogno di attenzione e dedizione, ma forse direi solo bugie. Ho insegnato sempre in scuole marginali perché non mi sentivo all’altezza delle scuole eccellenti, mi sarei sentito sempre a disagio, forse non abbastanza preparato e capace. Se ho passato quarant’anni in periferia, tra ragazzi spesso somarissimi e poco motivati, umanamente smarriti, figli di un dio minore e di famiglie sbandate, è perché la mia parte più autentica e sincera si è ritrovata a casa in quei contesti: diversa ma simile, forse più consapevole ma ugualmente sbalestrata, come se la vita vera degli esseri umani fosse quella, fosse lì, e il resto fossero solo illusioni o addirittura presunzioni. 

 

In fondo ho le stesse impressioni riguardo alla letteratura, mi sembra che l’idea di successo non possa coniugarsi con tutta la pena e la gioia che nascono dalla ricerca delle parole più chiare e profonde. Chi scrive lo fa perché si sente un mezzo disadattato, uno che cerca disperatamente di dare un senso alle cose frugando nella spazzatura e sperando di trovarci una perla: tutto questo è mille miglia lontano dai fasti dei premi più celebri, dalle interviste soddisfatte e dal denaro che sgorga dalle classifiche di vendita. Si scrive e si insegna perché si sa pochissimo, ma quel pochissimo è tutto ciò che ci permette di entrare in comunicazione con altre esistenze incerte come la nostra. 

 

E così, tornando al mio percorso di professore, ho passato quattro cinque anni nella scuoletta sui colli Albani, ogni mattina, sole vento o pioggia, partivo da Roma in Vespa e mi sentivo dentro un viaggio pieno di sorprese, proiettato verso trenta adolescenti che in realtà mi aspettavano senza troppo entusiasmo. Mi vedevano troppo giovane, pochi anni più dei loro, e in qualche modo sospettavano che io avessi tradito la giovinezza per passare al nemico: la cultura dei vecchi brutti e noiosi. Ho capito subito che il Mostruoso Problema era proprio questo: convincere i ragazzi che la cosiddetta cultura non è ferro arrugginito, marmo morto, fatica, tedio infinito, roba ideata da pesantissime persone scomparse milioni di anni fa solo per far soffrire ragazzi vitali, pieni di energie, con una straripante voglia di divertirsi, rimorchiare, correre in motorino a rotta di collo per liberarsi di ogni ragnatela. La prima cosa che ho capito è che un professore viene accettato o rifiutato dai suoi studenti non tanto per quello che dice o scrive sulla lavagna – può essere anche un vento meraviglioso, ma che entra da un orecchio e esce dall’altro – bensì per quello che è. E io all’epoca avevo venticinque anni, straripavo di energia, seguivo appassionatamente la musica, il cinema, l’arte, ma giocavo anche a pallone in una squadra amatoriale, viaggiavo in Vespa, avevo i capelli scapigliati da matto, ero innamorato, ero vivo e guizzante e saltellante come un fuoco d’artificio. 

 

Probabilmente di Italiano e Storia tantissimi professori ne sapevano più di me, ma quello che io sapevo si traduceva in una vitalità disordinata, accesa, scatenata. E questo funzionava, nel senso che i ragazzi non vedevano in me la depressione della cultura scolastica, ma uno strano entusiasmo. Non voglio prendermi meriti particolari, ero semplicemente così, e in parte lo sono stato per tutti gli anni che ho insegnato: curioso e grato a chi con una poesia, una canzone, un film mi rendeva la vita migliore, e desideroso di condividere quelle scoperte. Altrimenti, cari ragazzi, la vita è solo ripetizione meccanica di gesti e pensieri, una sopravvivenza che somiglia a una rinuncia. La materia tende all’inerzia e a sprofondare, come un canotto bucato che a poco a poco si sgonfia e affonda, bisogna soffiarci dentro tutta la bellezza che possiamo raccogliere nei polmoni se vogliamo che il viaggio nel mare mosso dell’esistenza abbia qualche speranza di approdo.

 

E allora quei miei primi studenti mi hanno visto come uno di loro, ma con una spinta in più: e quella spinta veniva dai libri e dalla musica e dal cinema, dall’amore e dai viaggi, e dalla voglia di non essere un tronco inerte. Tante volte, nel corso degli anni, davanti a colleghi che spiegavano Carducci e le Guerre di indipendenza per completare il programma e mettere i voti sul registro, mi sono domandato: ma cosa hanno assorbito di tutto quello che hanno studiato? Quanto è penetrato nella loro vita, quanto hanno sofferto e amato le pagine che hanno letto e imparato così bene? Ciò che si studia ha un senso solo se modifica la nostra vita, non sono graziosi soprammobili da posare su una mensola in una casetta a schiera. Per questo il professore, in modo quasi sempre inconsapevole, è anche un po’ un maestro, non perché sappia trasmettere chissà quale sapienza superiore, ma perché si presenta ai suoi allievi con la totalità della propria esistenza, che si è trasformata e forse anche potenziata grazie a tutto quello che ha imparato, che ora è semplicemente la sua vita.

 

Dalla scuola parificata sono passato alla scuola pubblica vincendo un concorso a cattedra. Una prova scritta e dopo tre mesi una prova orale, tutto lineare, non il calvario che devono scalare oggi gli aspiranti professori, impegnati a raccogliere crediti, punti e puntarelli, logorati da una precarietà che fiacca l’anima e spezza la schiena. Il primo anno ho insegnato in un istituto tecnico a Genzano, sempre ai Castelli romani, e poi, presentando una semplice domanda, sono stato trasferito a Roma, nella scuola dove sono rimasto per tutto il resto della mia carriera: e ora è finita, dal 1 settembre sarò in pensione. Parenti, amici, colleghi, tutti sono felici per me, tutti mi dicono “adesso ti riposerai, beato te, avrai finalmente il tempo per dedicarti completamente alla letteratura, di sicuro scriverai tanti altri bei libri, con più calma, mattinate intere solo per te e per quello che ti piace fare…”.

 

Così mi dicono, e io ringrazio, sorrido, fingo di essere contento. In realtà nel cuore ho un gran magone, una malinconia feroce perché la vita se ne va e perché meglio delle mattinate in classe non ho trovato nient’altro al mondo. Ma quale routine, quale ripetizione sbiadita del solito copione, quale minestra riscaldata ogni giorno: la scuola è una centrale elettrica e la mia piccola lampadina s’illuminava come un pianeta ogni volta che entravo nell’aula, in mezzo a quel casino tremendo, a quella vitalità scomposta e felice. Può sembrare un paragone bislacco, ma a volte mi sentivo l’adrenalina scorrere nel corpo come se fossi sul palco di un concerto, frontman della cultura! 

 

E poi, certo, c’è anche l’eterno ritorno dell’uguale, stesso tragitto, la stessa sala insegnanti dove si scambiano le solite chiacchiere e le solite lamentele, e i programmi sono più o meno sempre quelli, ma io non mi sono mai annoiato, ogni giorno è stato un giorno uguale e diverso. E’ una storia che si rinnova incrociandosi con altre mille storie a cui bisogna prestare tutta l’attenzione possibile.

 

Ancora una volta ho spiegato il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, le sue disperate domande alla luna, al gregge, alla vita, l’impossibilità di comprendere davvero quale sia il senso del suo e del nostro andare verso la morte, ma alla fine della lezione una ragazza è venuta alla cattedra e a voce bassa mi ha raccontato che suo padre non ha più un lavoro e sta chiuso in camera e beve, e sua madre piange, suo fratello è sparito chissà dove, e lei si sente male e come il pastore errante non sa cosa sia la sua esistenza, ora le pare solo una disgrazia. Chissà perché quella ragazza, che negli anni ha cambiato cento volte nome e volto, ma la voce è sempre la stessa, tremante, profonda, fiduciosa, perché è venuta a raccontare la sua pena proprio a me, prima giovane e poi maturo e poi vecchio professore… La scuola è così, si svolge sotto la stella dell’autenticità, giorni, settimane, mesi, anni passati insieme a quegli adolescenti producono rapporti che brillano di verità, spesso verità tristi, ma sincere. Di nuovo il professore diventa maestro, anche se è un uomo coi suoi problemi e le sue confusioni, e tra generazioni diverse si distende un ponte di corde che a volte viene attraversato con l’anima tra le mani. 

 

E sotto quella stella si sono sviluppati anche i rapporti con gli altri professori, non voglio definirli colleghi perché è una parola che mi intristisce. Nessuno deve fare carriera, scalzare un rivale, guadagnare un posto e una retribuzione migliore, e questo rende l’incontro più aperto: non c’è nulla da nascondere, nulla di cui approfittare. Tutto questo produce la meraviglia di una comunità, parola quasi scomparsa dal vocabolario comune, oppure utilizzata in modo ambiguo, pericoloso, tribale. Si sta insieme per anni per imparare tante cose, la matematica, le scienze, la letteratura, ma anche la scoperta di sé stessi e degli altri, il dialogo, l’ascolto, le sorprese di ogni giorno. Per questo la scuola rimane un ricordo fortissimo in ogni persona, perché solo tra quelle mura, in quei cortili, tutti quanti abbiamo provato la dolcezza e la potenza di una vita condivisa e dedicata alla conoscenza. Appena usciti dalla scuola ci si ritrova tra i lupi, il mondo di oggi funziona così, tutti contro tutti per un posto, per un piatto di minestra o di gamberetti e mazzancolle, per un monolocale sulla Prenestina o una villa all’Olgiata. Sinceramente: se non avessi trovato lavoro come insegnante, non credo che ce l’avrei fatta nella mischia spietata della nostra società. Non ho gli strumenti adatti, la predisposizione naturale alla lotta, la caparbietà di chi viene sconfitto e si rialza ogni volta più pronto, più cattivo. 

 

Certe volte, in un raptus di brutale schiettezza, mi dico che in fondo la letteratura e la scuola sono state per me un riparo dalla bufera, parole scritte e dette intrecciate come in una barricata per difendermi dal caos furibondo che c’è la fuori, ovunque, per le strade e nelle teste delle persone del mondo. In qualche modo, la letteratura e la scuola si somigliano, c’è dentro la stessa giovinezza e lo stesso desiderio di immaginare un altro modo di abbracciare le cose, senza rancori o diffidenze. Stare accanto ai ragazzi e alle ragazze tutti i giorni, in classe, accanto alle ferite primarie dell’adolescenza che sono anche sorgenti vive, domande infinite, aspettative assolute, aiuta chi vuole scrivere a non perdersi in percorsi cervellotici o futili, a rimanere sempre in quello stato di stupore e di ricerca di un senso che sono l’origine di ogni opera letteraria. Più che il fanciullino pascoliano è l’adolescente onanista, brufoloso e visionario il cuore della creatività. Dunque ero la persona giusta al posto giusto, e tutto andava bene. 

 

Poi però qualcosa è cambiato, e io non mi sono accorto subito del cambiamento, perché per tre anni ho lasciato la scuola per un dottorato all’università: mi sono rimesso a studiare e ho scritto un saggio sul rapporto tra eroi e maghe nella letteratura classica, che poi, dopo parecchi rifiuti editoriali in quanto considerato “troppo difficile e poco commerciale”, fortunatamente è stato pubblicato. E così dopo tre anni sono ritornato a scuola e tutto era diverso. Era come se fossi arrivato in un paese dove d’improvviso si parlava un’altra lingua, e non capivo più quello che dicevano, cercavo di stare attento, di seguire, ma non capivo, come accade in certi strani sogni. Se la scuola prima era essenzialmente “relazione”, rapporto intellettuale e sentimentale tra docente e studente, e tutto si giocava in quella disponibilità reciproca, in quella fiducia, ora l’istruzione ha imboccato una strada di tipo anglosassone, che grosso modo si basa su questo principio: basta con la sedicente qualità educativa, avanti con la verifica oggettiva delle conoscenze e delle competenze.

 

Alla base di tutto ciò, ovviamente, c’è lo sbarco massiccio dell’informatica, dei computer. Lì dentro tutto può e deve essere sistemato, organizzato e pesato in modo esatto, come sulla bilancia del farmacista. E’ chiaro che opporsi allo sviluppo inevitabile delle cose è tempo perso, donchisciottismo anacronistico e patetico: tutto scorre e bisogna accettare le trasformazioni, e infatti ho apprezzato le lavagne elettroniche, che permettono di far vedere agli studenti quadri, film, poesie, puntate di Rai Storia, di tutto e di più. Ma il sistema generale è una fitta impalcatura di tubi Innocenti dietro alla quale la scuola di sempre quasi non si vede più. 

 

La prima conseguenza è che i professori vivono nell’angoscia perenne di non aver fatto le cose giuste: “Erano compilati bene i moduli sulle materie? Ho segnato sul registro elettronico il ritardo di dodici minuti dello studente Rossetti? L’ho interrogato almeno quattro volte a quadrimestre? Ho usato le griglie di valutazione per ogni compito e ogni interrogazione? E ho preparato bene il compito, con le crocette da segnare sulle risposte esatte? Ho inviato alla mail dell’ufficio tecnico tutte le programmazioni con relative varianti? Ho rispettato a dovere tutte le scadenze? E i grafici, le percentuali, le curve in crescita o in discesa?”. E l’ansia cresce, e non si parla più di libri letti, di mostre da vedere, di politica o di sport, ma solo di incombenze burocratiche, si frigge su quella graticola sempre incandescente. 

 

I professori più giovani, precari perennemente appesi a un filo, cancellano tutto il resto e si dedicano con costanza a queste nuove incombenze, a una didattica che non prevede troppe sfumature. In questi ultimi anni, per me piuttosto sofferti, ho cercato di corteggiare qualche giovane professoressa con l’unico cinico obiettivo di farmi aiutare a sbrigare le infinite pratiche. Da solo non ce l’avrei mai fatta. Ho affrontato scrutini ed esami con molta più apprensione dei miei studenti, temendo di continuo di essere svergognato perché mi mancava qualche documento, una percentuale, un diagramma, senza il quale si è irrimediabilmente in torto. Se scatta il ricorso, sei del gatto. La scuola di oggi pretende oggettività, ogni vaghezza va spazzata via, ogni freccia che non prende esattamente il centro è una freccia sbagliata.

 

E però accade a tutti di ascoltare i resoconti dei ragazzi italiani che sono andati a studiare per sei mesi negli Stati Uniti, o in Canada, o in Gran Bretagna, là dove ha spavaldamente trionfato la pedagogia pignoletta dei test e delle valutazioni incontrovertibili: ebbene, tutti tornano stupefatti dalla totale ignoranza dei loro coetanei anglosassoni, ragazzi che studiano su dispense di otto fogli, per conoscere solo quello che è strettamente inerente al loro circoscritto campo di studio. “Una credeva che Beethoven fosse un cane San Bernardo, e un altro mi ha chiesto dove sta Roma e se è vero che il Papa è il nostro presidente… non sanno un cavolo…”. E sono scuole care, dove può frequentare solo chi ha genitori pronti a sganciare sull’unghia o a indebitarsi per decenni.

 

La scuola pubblica italiana è ancora democratica, efficiente, pregiata, gli insegnanti che ho conosciuto erano e sono quasi sempre preparatissimi e anche orgogliosi del lavoro che fanno, nonostante il delirio di indegnità che negli ultimi anni si fa avanti, con il suo corteo roboante e intimidatorio di cartacce e incombenze amministrative. Credo che sulla scuola i nostri volatili governi debbano investire di più, anche alzando gli stipendi, che all’inizio sono veramente bassi: ho giovani colleghi – trentenni, ma anche quarantenni – che per 1.400 euro vanno avanti e indietro tra Caserta e Roma, portandosi il panino incartato nella borsa per non spendere altro. 

 

Ma per me invece è giunto il tempo dei tramezzini, dell’aranciata e di una bottiglia di spumante da stappare in sala professori per festeggiare la fine del mio lavoro, quarantadue anni passati camminando  e agitandomi tra la cattedra e i banchi, gridando state zitti un minuto! e spiegando versi di poeti che forse non serviranno a nulla, ma che m’illudo si siano depositati da qualche parte, in uno sgabuzzino della mente o del cuore, e che un giorno torneranno fuori e parleranno ancora a questi ragazzi con la loro voce sapiente e chiara. I consuntivi sono sempre penosi, perché non si può più correggere nulla, aggiungere un piccolo numero alla somma, gettare una manciata di sabbia nella clessidra. Però, nonostante mi rimanga nella coscienza l’ombra di una colpa – avrei potuto e dovuto fare meglio, lo so – ora corro sulla solita Vespa verso l’ultimo giorno di scuola e mi scorrono confusi e sovrapposti i visi di migliaia di studenti con cui ho trascorso i giorni della vita, visi giovani che saranno invecchiati anche loro, e che alla fine si fondono in un solo viso, e mi pare che sorrida, che voglia dirmi qualcosa, chissà forse vuole anche lui farmi un saluto…

 

E anche io gli sorrido, perché è bello chiudere così, riconoscendo quello che ci siamo scambiati, quello che abbiamo imparato, loro, lui, ed io. Ma cosa abbiamo imparato? Aspetto che me lo dica quel viso, ma non lo capisco. Tante cose, nessuna cosa, o forse l’unica cosa che davvero conta e che si svela misteriosamente proprio negli anni della scuola, un bagliore che di colpo illumina tutto il resto e ci fa capire chi siamo, cos’è il mondo, come passa il tempo e come dobbiamo provare a fermarlo, ogni tanto, facendo le cose giuste, per noi e per gli altri.
 

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