Il triste soviet dei prof

Antonio Gurrado

Nessuno ci può valutare ma ci dovete pagare. E abbasso l’autonomia

Come Platone voleva i filosofi al governo, gli insegnanti vogliono al governo gli insegnanti. O, quanto meno, desiderano che chi vincerà le elezioni tenga a mente le proposte che i gruppi organizzati di docenti esprimono sotto la gettonata forma di decalogo – ma c’è anche chi si spinge al tridecalogo e al pentadecalogo. Si tratta di documenti che hanno poca o nessuna ricaduta comunicativa di massa ma che circolano con vigore su canali specializzati, i siti che i docenti compulsano in queste settimane prescolastiche di assegnazioni provvisorie, decadenza delle misure anti Covid, definizione dell’organico di fatto, domande per la messa a disposizione e roulette russa delle supplenze. Li firmano sindacati di settore come Gilda e Anief, associazioni con diciture criptiche come Agorà 33, network dalle ambiziose iniziali maiuscole come Regolarità e Trasparenza nella Scuola, per brevità RTS.

    
Pur nelle inevitabili difformità specifiche, emerge netta l’impressione che, se solo governassero gli insegnanti, essere insegnanti sarebbe bellissimo. Nella scuola ideale vagheggiata dalle varie sigle – una scuola che riceve sull’unghia finanziamenti per ulteriori dieci miliardi di euro o incrementi di un punto percentuale del pil – gli insegnanti godono di un contratto specifico che li distingue dagli altri statali, guadagnano cinquecento euro netti in più al mese (RTS, forse per l’emozione del vertiginoso aumento, parla di “500 euro nette”), ottengono una quattordicesima per ciascun figlio minorenne a carico, vengono sollevati dal carico burocratico, non devono sottoporsi ad aggiornamento e comunque solo in orario retribuito, usufruiscono di un anno sabbatico ogni dieci anni, riscattano gratuitamente gli anni di università, lavorano nove ore a settimana raggiunti i sessantadue anni d’età e possono decidere di andare in pensione poco dopo, quando preferiscono e senza decurtazioni rispetto al termine massimo, lavorando di fatto negli ultimi anni solo se hanno voglia di fare un favore allo stato. 

  
Alcune proposte sembrano de minimis – come il ritorno del vicepreside scelto dai colleghi, anziché nominato dal dirigente, oppure l’elezione di un presidente del Collegio docenti – ma nascondono un risentimento più profondo e sottaciuto, tutto volto a limitare la libertà d’azione della dirigenza scolastica e con essa l’eventualità che l’insegnamento venga valutato in termini di risultati concreti. Agorà parla infatti del “superamento di un apparato para-aziendalistico del tutto incongruente rispetto alla natura e agli scopi dell’istruzione pubblica”; Gilda dedica il più lungo comandamento del suo decalogo alla “revisione del sistema dell’autonomia delle scuole in una visione non aziendalistica delle Istituzioni scolastiche”, facile a tradursi in sostanziale immobilismo. Si va dal grande classico della stabilizzazione del precariato all’istituzione di “un organico di istituto funzionale, stabile, di durata pari al corso di studi”, che garantisca continuità didattica mantenendo immutato il corpo docente; per poi culminare nel “riconoscimento dell’anzianità di servizio quale elemento fondamentale della carriera dei docenti”, come a dire che basta respirare e buonanotte al giudizio sulla qualità.

    
Non a caso l’abolizione dell’Invalsi – e delle sue malviste prove valutate secondo criteri oggettivi su scala nazionale – si trova a chiare lettere nei manifesti di RTS e Agorà. Ma è solo parte di una smania abolizionista che percorre i punti dei vari manifesti. Va abolita l’autonomia scolastica. Va abolito il Pcto, reincarnazione dell’alternanza scuola-lavoro. Va abolita in tronco la Buona Scuola, stralciando solo la Carta del docente, il cui valore va invece raddoppiato da cinquecento a mille euro. Va abolita anche la Scuola di Alta Formazione degli insegnanti prevista dal Pnrr, conseguendo l’ammirevole record di bocciarla prima ancora che venga indetta.

   
Certo, qualche proposta interessante affiora qua e là in questi volantini che mescolano cahiers de doléances e proiezioni ipnagogiche: l’incremento del numero di ore curricolari per potenziare l’insegnamento delle discipline di base, il ripristino della commissione esterna alla Maturità, ovviamente l’investimento nell’edilizia scolastica che consentirebbe di aumentare le aule riducendo l’affollamento delle classi, e magari anche un’indennità di trasferta per i supplenti che vengono scaraventati lontanissimo da dove abitano. Principale scopo di tali manifesti sembra tuttavia essere proprio rafforzare nei docenti di ogni grado la consapevolezza di sentirsi categoria vessata, illudersi di esercitare un ricatto morale sull’élite politica (RTS invita espressamente a non votare i partiti che non adottano il suo decalogo) ed esortare gli insegnanti a far fronte comune: tutti insieme, quasi settecentomila, spostano circa il 2 per cento dei voti.

 
Sarà forse per questo che, insistendo sul valore dell’istituzione scolastica come “organo costituzionale della democrazia”, Agorà propone di porre gli insegnanti al riparo da qualsiasi critica, sotto forma di un “codice deontologico per tutti coloro che si occupano di scuola a livello dirigenziale, amministrativo, politico” che “imponga il rispetto della professionalità dei docenti e la tutela della loro immagine pubblica”. Ingolositi dal solo immaginarsi al potere, gli insegnanti non resistono alla tentazione di eliminare una volta per tutte il rischio di sentirsi apostrofare come poco qualificati, refrattari alla valutazione, iper sindacalizzati e privilegiati. Se gli insegnanti governassero, un insegnante non avrebbe mai potuto scrivere quest’articolo.

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