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Esame all'italiana

Maturità, il compromesso che può salvare gli scritti

Claudio Giunta

I dubbi sull'esame di stato riguardano soprattutto la seconda prova e con molta probabilità ci sarà la solita scappatoia all'italiana, una mano di velluto in guanto di ferro, così le valutazioni tenderanno a essere anche più clementi del solito

Io l’esame di stato lo abolirei, perché un esame che passano praticamente tutti non è un esame. “Ma – si obietta – è comunque una prova, una soglia che si supera, un rito di passaggio, nonché un buon modo per convincere i ragazzi più svogliati a studiare un po’ più del solito (“quest’anno c’è la maturità!”)”. Sì, ma dobbiamo smettere di prendere le cose non per il loro valore in sé ma per i loro effetti collaterali o il loro significato simbolico: la condanna troppo severa che però dà l’esempio agli altri aspiranti delinquenti, le mascherine sulla faccia anche se non servono perché così uno sta attento, gli esami che si superano in ogni caso ma intanto mettono addosso un pochino di virtuosa tensione. Nessun angolo della vita associata senza il suo bravo nudge. Non va bene. Un esame dovrebbe accertare il possesso di determinate conoscenze o competenze o abilità. Le accerta l’attuale esame di stato? No, quindi meglio prenderne atto, risparmiare i soldi e la fatica, concentrarsi su cose più utili (per esempio non passare dei mesi a prepararsi per l’esame) e consegnare all’università o alla vita o a nessuno il compito di fare filtro.

 

Ma visto che l’esame is here to stay, prove orali o prove scritte? La reazione pavloviana dei professori (quindi anche la mia) è: “Ma cosa vogliono questi? Altro che abolire la prova scritta, non due ce ne vogliono ma tre, quattro, anzi la retroversione dall’italiano al latino come ai bei tempi, che poi quando vanno a fare i concorsi in magistratura fanno un errore di grammatica per riga”. La reazione pavloviana è ragionevole, un po’ scentrata e discutibile. Ragionevole: perché chi non pensa che gli esami debbano essere seri e rigorosi, e che un compito scritto consenta un giudizio più oggettivo rispetto a un colloquio orale, e solleciti competenze che è importante poter misurare? Un po’ scentrata: perché il problema, ripeto, non sta nell’orale o nello scritto, ma nell’esame in sé, in un esame – dicevo – concepito non come prova da superare ma come soglia, rito, festa di congedo. Discutibile: perché una prova scritta c’è già per tutti, la prima, l’inossidabile tema su un testo letterario, o su un argomento di attualità; e i dubbi (formulati dal Cspi e da alcuni studenti) riguardano soprattutto la seconda prova caratterizzante, non perché si voglia a tutti i costi facilitare l’esame, ma un po’ perché chi lo sa se a giugno si potrà stare nelle aule senza mascherina, un po’ perché veniamo da due anni di semi-scuola, quando non di non-scuola, e forse sarebbe stato opportuno proporre delle prove che tenessero conto della vita difficile che gli studenti hanno vissuto in questo arco di tempo. Quali? Difficile dirlo senza scendere nel dettaglio degli indirizzi, delle discipline; ma va forse in questo senso la decisione di dare alle singole commissioni l’incarico di formulare le seconde prove scritte: decisione sensata, ma che mette un’altra responsabilità e un’altra fatica sulle spalle degli insegnanti, anche loro piuttosto provati dai mesi passati in Dad o in classe con la mascherina (l’insegnante-scrittore Mario Fillioley ne ha parlato in maniera molto spiritosa e molto vera sulla sua pagina Facebook: consiglio la lettura). Si arriverà, immagino, a un compromesso all’italiana; si sarà cioè molto gentili e comprensivi, anche più del solito, nella valutazione delle prove scritte, e addirittura amichevoli al colloquio orale: mano di velluto in guanto di ferro (il ritorno delle prove scritte!), il che dopo questa ordalia di due anni – non sono ironico – mi pare persino giusto. 

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