I ragazzi in piazza non stanno facendo i furbi. Ascoltiamoli

Marco Lodoli

Una generazione in crisi, segnata nel profondo dal virus, dall’ansia e dalla depressione, che pensa di non farcela perché non ha potuto studiare quanto sarebbe stato necessario, perché la cameretta ha indebolito tutti. Verso quelli prima di loro si è tesa una mano amica, per loro no

La prima e la seconda prova dell’esame di maturità sono state ripristinate al volo dal nostro ministro Bianchi e subito, com’era prevedibile, gli studenti italiani sono scesi in piazza per contestare queste decisioni. Di solito si manifesta in nome di una forza che pretende altre scelte, altre soluzioni, ma stavolta i ragazzi sembrano protestare in nome della debolezza, della fragilità, anche della paura. Due anni di Covid, cioè tre anni di scuola, hanno prodotto un mare di insicurezza, e ora gli studenti non si sentono abbastanza preparati per affrontare le due prove scritte. La loro posizione è chiara, me l’hanno spiegata in due minuti: “I ragazzi del 2001 e del 2002 hanno ricevuto tutta la comprensione del mondo, hanno potuto affrontare esami facilitati, per loro c’è stato un giusto occhio di riguardo, mentre noi, che abbiamo passato tre anni dissestati, tra Dad, quarantene, lezioni ridotte, noi dobbiamo fare esami completi. Perché?”.

  

A loro sembra di subire un torto assoluto, di essere trattati come i figli della serva, che al ministero non abbiano proprio capito quanta sofferenza psichica e a volte anche fisica gli studenti hanno incamerato in questi lunghissimi mesi di reclusione, prigionieri nelle loro camerette, nelle loro solitudini, oppure in classe, ma separati, distanziati, mascherinati, immalinconiti e confusi. Si sentono ancora dentro la tempesta, sballottolati e feriti, e li spaventa l’idea di andare a giugno a scrivere un tema, ad affrontare una seconda prova inerente il corso di studi. Avrebbero voluto sentire che il mondo degli adulti era dalla loro parte, che aveva compreso quanta depressione individuale e sociale li ha travolti e segnati.

 

Sarebbero invece stati felici di proporre una loro “tesina”, cioè una ricerca approfondita e personale attorno a un tema che ognuno poteva sentire come suo. Ma la tesina è saltata, mentre le prove rimangono. In qualche modo si sono sentiti traditi, si sono collegati ogni mattina, hanno fatto tutto quello che potevano fare, sono saliti su autobus infetti, sono venuti a scuola quando la situazione era ancora minacciosa, e in cambio si aspettavano una carezza, un po’ d’attenzione, un aiuto. E’ come se dalle piazze si alzasse non il solito grido di protesta, ma un gemito, un lamento collettivo, una traballante confessione di impotenza. “Non ce la facciamo più, professo’, vogliamo solo chiudere questa lunga parentesi e riprendere a vivere”, mi ha detto un mio studente, “vogliamo che la scuola capisca la nostra stanchezza, e non ci martelli senza pietà”. 

   
La situazione è questa: una generazione in crisi, segnata nel profondo dal virus, dall’ansia e dalla depressione, che pensa di non farcela perché non ha potuto studiare quanto sarebbe stato necessario, perché la cameretta ha indebolito tutti. Verso quelli prima di loro si è tesa una mano amica, per loro no. Li capisco. Hanno patito, hanno perso fiducia, e forse la scuola dovrebbe ascoltarli. Non stanno facendo i furbi, stanno solo manifestando tutta la loro fragilità. Ricominciamo a fare i soliti esami dal prossimo anno, quando tutto sarà finito: è stata una guerra, non perdiamola a giugno.  

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